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Parco naturale regionale delle Alpi Marittime

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La lunga parabola gotica e il Quattrocento

Dal Rinascimento al Settecento: il ruolo di Torino capitale

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Parco naturale regionale Valle del Ticino - Parco naturale regionale La Mandria - Parco naturale regionale Veglia-Devero

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Il Percorso Artistico e Culturale Dall'antichità all'anno Mille Il Romanico e le suggestioni transalpine La lunga parabola gotica e il Quattrocento Dal Rinascimento al Settecento: il ruolo di Torino capitale

Il Percorso Artistico e Culturale Dalla Restaurazione al Novecento Il Novecento Le Città Torino Luoghi di interesse La Mole Antonelliana Teatro Regio

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Le Città  Alessandria Asti Biella Cuneo Langhe e Monferrato Novara

Le Città Verbania Isole Borromeo Vercelli Piccolo Lessico Bagnacauda Barbera Canale Cavour Giandujotto Langhe Monferrato Vermouth Personaggi Celebri Gianni Agnelli Vittorio Alfieri Camillo Benso conte di Cavour Massimo D'Azeglio Cesare Pavese Silvio Pellico

Centri minori Acqui Terme Alba Arona

Centri Minori Borgomanero Borgosesia Casale Monferrato Chieri Chivasso

Centri Minori Domodossola Gattinara Ivrea Macugnaga Moncalieri Mondovì Orta San Giulio Saluzzo Santhià Sestriére Stresa Tortona

Centri Minori Valenza Varallo Pombia

Piemonte p1.1 p0.1 p1 p01 p02 p2 p03 p3 p04 p4 p5 p6 p7 p8 p9 p10 p11

Geografia Italia

Piemonte popolazione

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GEOGRAFIA - ITALIA - PIEMONTE

PRESENTAZIONE

Posta ad Occidente della Pianura Padana, la regione piemontese occupa quella parte dell'arco alpino, che va dal Colle di Cadibona al Passo di San Giacomo, e la prima parte dell'Appennino Ligure fino al Monte Antola. La sua superficie è di 25.399 kmq. Il Piemonte confina a Nord-Ovest con la Valle d'Aosta, a Nord con la Svizzera, a est con la Lombardia, e con l'Emilia, a Sud con la Liguria e a Ovest con la Francia. Il suo territorio piuttosto vario ospita una popolazione di 4.251.351 (2023) abitanti (densità: 169 abitanti per kmq). Le province, oltre a Torino, che è il capoluogo, sono sette: Alessandria, Novara, Asti, Cuneo, Biella, Verbania e Vercelli. È una delle regioni più periferiche rispetto all'asse centrale della Penisola ed è la più occidentale; questa sua posizione l'ha resa aperta alle influenze culturali d'Oltralpe, specialmente francesi. Per lunghi secoli politicamente separato dall'Italia, il Piemonte è stato inizialmente unito alla regione francofona della Savoia, sotto il governo dell'omonima dinastia sabauda fondata a Chambéry da Umberto Biancamano. Circondato su tre lati dai monti, ha preso l'appellativo di Pedemontium (ai piedi dei monti), da cui deriva l'attuale nome di Piemonte.

IL TERRITORIO

Il territorio del Piemonte, per due terzi montuoso e per il resto collinare e pianeggiante, presenta caratteristiche ben definite. La zona montuosa è costituita dalle Alpi Occidentali e da una porzione dell'Appennino Settentrionale; le vette più alte sono quelle del Monte Rosa (4.633 m), del Gran Paradiso (4.061 m) e del Monviso (3.841 m). Nonostante le cime aspre, numerosi valichi permettono facili comunicazioni con Francia e Svizzera. I passi principali sono il Colle di Tenda, il Colle della Maddalena, il Passo del Monginevro, il Passo del Sempione e il Traforo del Frejus. I territori delle Langhe e del Monferrato formano la parte collinare della regione. La pianura infine comprende le zone delimitate dalla Dora Riparia: a Nord la Lomellina, il Novarese, il Vercellese, il Canavese e il territorio prossimo a Torino; a Sud la pianura attorno a Cuneo. I fiumi più importanti della regione sono degli affluenti del Po, che nasce dal Monviso e attraversa l'intera regione da Ovest verso Est. I corsi d'acqua hanno una notevole portata e sono alimentati dai torrenti secondari. Gli affluenti di destra sono: il Tanaro, che riceve la Stura, l'Ellero, il Belbo, la Bormida, e la Scrivia, che nasce al Passo dei Giovi. Gli affluenti di sinistra sono: la Dora Riparia; la Stura di Lanzo; l'Orco, che nasce nel gruppo del Gran Paradiso; la Dora Baltea, che attraversa pressoché tutta la Valle d'Aosta; il Sesia, che nasce nel gruppo del Monte Rosa, e il Toce, che scende dalla Val d'Ossola. I più importanti laghi alpini piemontesi sono: il Lago Maggiore, la cui sponda orientale è situata in territorio lombardo; il Lago di Viverone, in provincia di Biella; i laghi di Avigliana, in provincia di Torino. Di rilevante interesse idrografico ed importanti per l'economia della regione sono i fontanili o risorgive che si trovano nei territori in provincia di Vercelli e di Novara. Il Piemonte, a causa della sua posizione geografica, offre una grande varietà climatica. Questa infatti è causata dal fatto che la regione si trova ai piedi delle Alpi, che in essa si alternano rilievi collinari e pianure, e che gode della vicinanza del Mar Ligure. Il clima è continentale, caratterizzato da temperature molto fredde durante la stagione invernale; invece in estate è piuttosto caldo in pianura e in collina, e fresco in montagna.

Cartina del Piemonte

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Veduta del Monte Rosa

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Prealpi biellesi a Zumaglia (Vercelli)

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PARCHI NAZIONALI E REGIONALI

Il Piemonte è da sempre regione leader nella conservazione della natura in Italia, avendo fatto della costituzione di parchi e riserve uno degli aspetti qualificanti e riconoscibili dell'assetto del territorio. E ciò ben prima che fosse varata la Legge quadro sulle aree naturali protette, n. 394/91, che ha dato slancio a parchi e riserve di tutt'Italia, portando il Bel Paese alla soglia di quel 10% di territorio protetto che da decenni ormai è l'obiettivo minimo di quanti si occupano di tutela dell'ambiente naturale. Del resto i beni naturali del territorio piemontese sono di valore eccezionale, dai ghiacciai eterni alle zone umide del nostro più grande fiume, il Po, la diversità biologica e paesaggistica è davvero di grande rilevanza culturale e scientifica, tanto che il Piemonte è interessato da ben due parchi nazionali: la Val Grande ed il Gran Paradiso.

Parco Nazionale del Gran Paradiso

Vedi Valle d'Aosta, Parchi Nazionali e Regionali.

Parco Nazionale della Val Grande

Il Parco Nazionale della Val Grande, istituito nel 1992, si estende nel cuore della provincia del Verbano Cusio Ossola, tra creste dirupate e cime solitarie. è l'area selvaggia più vasta d'ltalia. Percorrendo i sentieri della Val Grande possiamo scoprire i segni lasciati dall'uomo nei secoli passati quando la valle era meta di pastori e boscaioli, tracce di una vita faticosa e povera che suscita interesse e ammirazione per la capacità di adattarsi a un territorio tanto impervio e inaccessibile. Il territorio del Parco è compreso in un'area di straordinario interesse geologico. Le montagne più caratteristiche della Val Grande, come il Pedum, il Proman, i Corni di Nibbio, la Cima Sasso e la Cima della Laurasca, sono costituite per esempio da rocce molto scure (anfiboliti, serpentiniti, peridotiti), verdi o nerastre, ad elevato peso specifico, estremamente dure e resistenti agli agenti atmosferici. è una parte di quella che i geologi chiamano "Zona Ivrea-Verbano", una porzione di crosta continentale profonda, proveniente dalla zona di transizione con il mantello terrestre (quindi da profondità di circa 35-50 km). Ma nel Parco troviamo soprattutto le testimonianze del rapporto tra l'uomo e la pietra, utilizzata e lavorata fin dall'antichità come materiale da costruzione. La storia del Parco è anche strettamente legata a quella dello sfruttamento delle cave di marmo rosa di Candoglia, utilizzate fin dalla fine del XIV secolo per la costruzione del Duomo di Milano.

Con la concessione di Gian Galeazzo Visconti (24 ottobre 1387), la Veneranda Fabbrica del Duomo entrò in possesso anche di tutti i boschi della Valgrande tra Cima Corte Lorenzo e Ompio. Il legname era utilizzato sia in cava, sia a Candoglia, per la costruzione delle chiatte, sia a Milano per le impalcature del Duomo: questa data, oltre l'inizio di una frenetica attività estrattiva, segna l'inizio del disboscamento della Valgrande. L'attuale scarsissima antropizzazione fanno della Val Grande un ideale laboratorio naturale dove approfondire la conoscenza dell'evoluzione naturale della vegetazione e delle comunità animali conseguente all'abbandono da parte dell'uomo dopo secoli di sfruttamento. Tra gli uccelli sono da indicare l'aquila reale, il falco pellegrino, il gallo forcello, il francolino di monte e il gufo reale. Degni di nota sono anche le diverse specie di picchi, fra cui il picchio nero, e alcuni Passeriformi come il luì bianco e l'averla piccola. Gli erbivori sono presenti nel territorio del Parco con popolazioni ben strutturate come nel caso del camoscio e del capriolo. La situazione è favorevole anche per il cervo che si prevede possa diventare nei prossimi anni una presenza consolidata. Volpe, faina, martora, tasso e donnola sono i rappresentanti più significativi tra i carnivori. Nei boschi abitano numerosi piccoli mammiferi come ghiri e topi selvatici. Grazie all'abbondanza e alla qualità delle acque che scorrono impetuose nel Parco, occorre segnalare la fauna che vive nei torrenti e che da questi dipendono. Le specie più rappresentative sono la trota fario e lo scazzone accompagnate dai numerosi macroinvertebrati (larve di effimere e di tricotteri) che ne costituiscono la dieta. Non è raro l'incontro con due specie di uccelli che frequentano i grossi massi e le rive acciottolate: il merlo acquaiolo e la ballerina gialla. La Val Grande è spesso conosciuta per la presenza della vipere.

Questi rettili prediligono infatti gli ambienti poco frequentati dall'uomo e ricchi di nascondigli quali cespugli e cumuli di pietre; trovano pertanto nelle aree più selvagge del Parco l'habitat adatto. Specie di rilievo si ritrovano anche tra gli insetti, in particolare tra i coleotteri: il Carabus lepontinus vive esclusivamente sulle pendici del Monte Zeda (specie endemica), mentre la Rosalia alpina, l'Osmoderna eremita e lo Gnorimus variabilis sono compresi negli elenchi delle specie strettamente protette a livello europeo. Pensando al territorio del Parco come un ambiente in continua evoluzione verso una situazione sempre più simile a quella originaria è importante ricordare le specie oggi estinte quali lupo, orso, lince e lontra, gatto selvatico e puzzola, per alcune delle quali è ipotizzabile in futuro un ritorno. La ricchezza della vegetazione e la varietà delle fioriture, grazie all'influenza termica del Lago Maggiore, costituiscono una delle attrattive maggiori del Parco. Nella bassa Val Grande predominano i boschi misti di latifoglie con prevalenza del castagno. Il faggio costituisce invece la specie arborea più diffusa dell'alta Val Grande, per lo più sui versanti umidi e meno assolati, ma anche su quelli meridionali, in conseguenza della elevata piovosità di questa zona. Alcuni esemplari monumentali di faggio hanno resistito ad un'enorme valanga caduta nella metà degli anni '80 all'Alpe Boschelli, mentre altri sono osservabili in Val Pogallo nei pressi di Pian di Boit e dell'Alpe Busarasca. Alle faggete si aggiungono, seppur limitati per estensione, i boschi di conifere, le cui specie principali sono l'abete rosso e l'abete bianco. Scarso il larice, in conseguenza del clima e dei tagli effettuati nei secoli scorsi. Le forre sono tra gli ambienti più significativi e di interesse prioritario a livello europeo e sono colonizzate da tassi, ontani, tigli e aceri.

Parco naturale regionale delle Alpi Marittime

Il Parco naturale delle Alpi Marittime è stato creato nel 1995, in seguito alla fusione del Parco naturale dell'Argentera (istituito nel 1980) con la Riserva del Bosco e dei Laghi di Palanfré (istituita nel 1979). è nata così un'unica grande area protetta che si estende su una superficie di 27.945 ettari, ripartita su tre valli (Gesso, Stura, Vermenagna) e quattro comuni (Aisone, Entracque, Valdieri, Vernante). Le Alpi Marittime, estremo lembo meridionale della catena alpina, dividono la pianura piemontese dalla costa nizzarda e sono comprese tra due valichi molto frequentati fin dall'antichità: il Colle di Tenda e il Colle della Maddalena. Entrambi i versanti delle Marittime sono sottoposti a protezione: infatti, sul lato francese, si estende il Parco Nazionale del Mercantour, famoso in tutto il mondo per la Valle delle Meraviglie, sito che ospita migliaia di incisioni rupestri risalenti per lo più all'Età del Bronzo. I due parchi confinano per oltre 35 chilometri e formano nel loro insieme un'area protetta di oltre 100.000 ettari, che potrebbe diventare in un futuro prossimo il primo esempio di Parco internazionale. Per favorire questa prospettiva, da tempo Marittime e Mercantour lavorano a una serie di progetti e, dopo essersi gemellati nel 1987, hanno ottenuto nel 1993 il Diploma Europeo, importante riconoscimento che ha dato ulteriore impulso allo studio e alla realizzazione di una politica comune di protezione del territorio e di sviluppo economico. La bellezza di queste montagne, la ricchezza di camosci, di trote e di una splendida e rigogliosa vegetazione colpirono con forza Vittorio Emanuele II, quando nel 1855 il re di Sardegna visitò la Valle Gesso e le sue terme. Il suo apprezzamento non passò inosservato, e i sindaci dei Comuni dell'alta valle, ben conoscendo la sua passione venatoria e i vantaggi che sarebbero derivati da una presenza estiva in zona della famiglia reale, stabilirono di cedere al re i diritti di caccia e di pesca su gran parte del loro territorio. Nacque così la Riserva Reale di caccia. Casa Savoia edificò, tra il 1865 e il 1870, la residenza estiva a Sant'Anna di Valdieri, le palazzine di caccia a San Giacomo di Entracque e al Piano del Valasco. Alle Terme vennero costruiti quattro chalet "di foggia svizzera". L'area delle Alpi Marittime è famosa in tutto il mondo per la sua ricchezza botanica. Complessivamente viene stimata la presenza di 2.600 specie, un patrimonio pari a quasi la metà di quello dell'intera penisola. La Famiglia delle Orchideacee, ad esempio, di cui fanno parte alcuni dei fiori più spettacolari che si trovano in natura, nel solo territorio del Parco può contare su quaranta delle ottanta specie di orchidee censite in Italia. Le peculiarità delle Marittime in ambito botanico si spiegano con la loro posizione geografica, di raccordo tra i sistemi montuosi di Piemonte, Liguria e Provenza; geologicamente collegate, in tempi remoti, con distretti anche molto lontani (Pirenei, Corsica, Balcani) rivelano ancor oggi con queste aree sorprendenti affinità floristiche.

A rendere vario il clima e di conseguenza la flora contribuiscono la vicinanza del mare e l'esistenza di numerose cime oltre i 3.000 metri di quota, tra cui spicca l'Argentera, che con i suoi 3.297 metri rappresenta il tetto delle Marittime. Queste condizioni favoriscono la presenza non solo di un elevato numero di specie, ma anche di numerosi endemismi, cioè di piante che crescono esclusivamente in una certa area. Della trentina di endemismi delle Marittime, quello che attira particolarmente la curiosità dei visitatori e l'interesse dei botanici è la Saxifraga florulenta: dalla rosetta di foglie basali, dopo una trentina d'anni emerge una lunga infiorescenza a pannocchia di color rosa tenue; dopo la fioritura, la pianta muore. La Sassifraga è una pianta primitiva e di conseguenza poco evoluta che è sopravvissuta nelle Alpi Marittime perché interessate sono marginalmente dalle glaciazioni. Poche aree protette possono vantare una ricchezza faunistica come quella del Parco naturale delle Alpi Marittime. La specie più facilmente osservabile, soprattutto al mattino presto e alla sera, è il camoscio. Il popolamento di questo animale, che può contare su circa 4.500 esemplari, se considerato in rapporto alla superficie è uno dei più consistenti delle Alpi. Lo stambecco, reintrodotto per volere di Vittorio Emanuele III negli anni Venti, dalla ventina di capi provenienti dal Gran Paradiso è passato a oltre 500 esemplari, che possono essere ammirati da distanza ravvicinata soprattutto in periodo primaverile. Altri ungulati presenti nel Parco sono il capriolo, il cinghiale, animali più schivi e difficili da osservare anche per il tipo di ambiente che abitualmente frequentano: il bosco. Nell'estate è possibile l'incontro con il muflone, proveniente dal vicino Parco del Mercantour. Per i suoi caratteristici fischi, le posizioni che assume sulle rocce, il correre goffo ma agile, la marmotta è uno degli animali che maggiormente sanno attirarsi le simpatie dei visitatori, soprattutto dei più piccoli. L'avifauna, estremamente ricca e diversificata, comprende quasi tutte le specie tipiche dell'arco alpino occidentale, dal gallo forcello alla pernice bianca, ed un gran numero di migratori. Nel Parco vivono sette coppie di aquila reale e sono presenti molte altre specie di rapaci, tra cui il gipeto, che è ricomparso di recente nelle Alpi Marittime grazie ad un progetto europeo di reintroduzione. Spontaneo è stato invece il ritorno di un predatore sottoposto per secoli a terribili persecuzioni, il lupo.

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Parco naturale regionale Valle del Ticino

Il Parco piemontese della Valle del Ticino è stato istituito con Legge regionale n.53 del 21 agosto 1978. Il territorio del Parco ha una superficie di 6.250 ettari ed occupa una ristretta fascia lungo la riva destra del Ticino, dal suo imbocco dal Lago Maggiore fino al confine regionale, comprendendo parte del territorio di undici Comuni, da Castelletto Ticino a Cerano. Insieme al Parco Lombardo del Ticino costituisce una tra le maggiori aree protette d'Italia, caratterizzata dalla presenza costante del fiume. Il Parco è costituito da una vallata, dapprima profondamente incassata che si amplia progressivamente con declivi più dolci, ricchi di boschi, con grandi anse del fiume. A Sud, la valle si allarga maggiormente creando una serie di ramificazioni tra ghiareti e isoloni, periodicamente sommersi dalle piene. Questa zona è dunque caratterizzata dalla presenza di numerose lanche in cui l'acqua scorre più lentamente favorendo lo sviluppo di una ricchissima vegetazione acquatica. Altra caratteristica del Parco è la presenza di fontanili e risorgive, siti in cui l'acqua mantiene temperatura pressoché costante durante tutto l'anno dando luogo a vegetazioni ricche e rigogliose. I boschi, che occupano il 60% dell'area a Parco, recano tracce dell'originario bosco planiziale con netta prevalenza di latifoglie quali farnia, carpino, olmo e robinia (invasiva). Il sottobosco è caratterizzato da nocciolo, prugnolo e biancospino. Le fioriture erbacee primaverili di dente di cane, scilla, pervinca e primula sono una nota caratterizzante del Parco. Di particolare interesse la vegetazione acquatica delle lanche con presenza di ninfea, nanufero, tifa ecc. Tra i mammiferi ricordiamo lo scoiattolo, il coniglio selvatico, il riccio. Presente inoltre la lepre, una specie non autoctona, introdotta con ripopolamenti a scopo venatorio. Tra gli uccelli si trovano: il germano reale, l'airone cenerino, la gallinella d'acqua, il fagiano comune; tra i pesci la trota, il luccio, il cavedano.

Parco naturale regionale La Mandria

Parco "storico" nelle immediate vicinanze di Torino dalla morfologia a terrazzi alluvionali in cui le zone boscose si alternano ad ampi pascoli, piccoli laghetti e terreni agricoli. Nato nel XVI sec. come riserva di caccia della corte sabauda e luogo attrezzato per il soggiorno del re e della sua corte, vide sorgere, alla metà del XVII sec., per interessamento di Carlo Emanuele II e per opera del Castellamonte, un sontuoso Palazzo di Piacere che sarebbe poi divenuto il complesso del Castello della Venaria. Sotto il regno di Vittorio Amedeo II fu creato un allevamento di cavalli per le scuderie reali (da cui il nome "La Mandria") e quindi, ad opera di Vittorio Emanuele II furono costruiti ed ampliati vari edifici (Il Castello, La Bizzarria, Le Cascine), ora di interesse storico ed architettonico. Sul finire dell' 800, la proprietà passò ai Medici del Vascello, quindi negli anni che vanno dal 1920 al 1930 vennero compiute grandi opere di bonifica, che fecero assumere alla Tenuta l'aspetto attuale. Nel 1958 una grande fascia di terreno è ceduta alla Fiat, che vi ricava una pista di collaudo per auto. Nel 1960 tocca a 243 ettari, destinati a un campo da golf. In seguito altri 430 ettari sono acquistati come riserva di caccia dalla famiglia Bonomi Bolchini, che compera anche il castello dei Laghi. Un lotto di 400 ettari è quindi ceduto per erigervi il complesso residenziale i "Roveri" e un altro campo da golf. Un'ultima porzione, di circa 11 ettari e mezzo è destinata all'istituto zoo-profilattico del Piemonte. Nel 1976 la Regione Piemonte acquista i rimanenti 1.345 ettari. Il 21 agosto 1978 una Legge regionale istituisce il "Parco regionale La Mandria". Infine, nel 1995 la Regione acquista dai Bonomi-Bolchini la Tenuta dei Laghi. I grandi allevamenti, dapprima equini, da cui derivò il nome stesso di Mandria, e successivamente di selvatici e di bovini, hanno caratterizzato la storia della Mandria fin dalle origini e si sono protratti per tutto il Novecento passando attraverso le vicende di casa Savoia e le trasformazioni agricole attuate dai marchesi Medici del Vascello nel ventennio fascista. Con l'istituzione del Parco regionale La Mandria sono state avviate profonde trasformazioni nell'uso del territorio dettate dalla volontà di salvaguardare ciò che rimaneva dell'antica foresta planiziale a querce e carpini, la cui sopravvivenza era minacciata dalle bonifiche e dal carico di ungulati, soprattutto cervidi e bovidi. Vietata l'attività venatoria, dismessi progressivamente gli allevamenti bovini e di fauna selvatica, sottoposti a piani di contenimento cervi e cinghiali, oggi il Parco mantiene, a testimonianza delle proprie origini e a beneficio dei visitatori che possono usufruire di passeggiate a cavallo e visite in carrozza, un piccolo nucleo di capi equini da sella e da tiro allevati presso la cascina Vittoria. Negli ultimi anni ha preso avvio il progetto "Nuovi Pascoli" il cui obiettivo è la tutela e valorizzazione delle razze equine italiane in via d'estinzione aventi caratteristiche di buona rusticità che ben si adattano all'allevamento semi-brado che può essere proficuamente attuato nel Parco: agli animali vengono riservati ampi spazi recintati in cui sono liberi di muoversi e di seguire i propri ritmi biologici secondo natura, riacquistando così i comportamenti tipici della specie. Il territorio de La Mandria è un frammento dell'antica conoide dei torrenti Stura e Ceronda che ha conservato buona parte della sua copertura vegetale naturale, rappresentando quindi uno degli ultimi esempi di bosco planiziale, cioè di copertura forestale che molte migliaia di anni fa ricopriva tutta la pianura padana. Le condizioni ambientali locali sono particolarmente favorevoli per lo sviluppo del bosco: le precipitazioni sono abbondanti (oltre 1.000 mm/ anno); la stagione vegetativa è lunga essendo compresa tra aprile e settembre e soprattutto i suoli sono, almeno in parte, buoni o anche eccellenti da un punto di vista forestale.

Parco naturale regionale Veglia-Devero

Istituito con Legge regionale del 14 marzo 1995, n. 32 è il risultato dell'accorpamento del Parco naturale dell'Alpe Veglia (L.R. 14/78) e del Parco naturale dell'Alpe Devero (L.R. 49/90) ed è diviso amministrativamente fra i comuni di Varzo, Trasquera, Crodo e Baceno. L'area protetta ha una superficie complessiva di 8.539 ettari ed ha uno sviluppo altitudinale compreso fra i 1.600 ed i 3.553 m s.l.m. Il Parco è stato istituito per tutelare le caratteristiche ambientali e naturali di due ampie conche alpine alla testata delle Valli Divedro e Devero contornate dalle più alte vette delle Alpi Lepontine Occidentali. Questi ambienti devono la loro origine al modellamento glaciale che ha lasciato tracce evidenti della sua azione: rocce montonate, massi erratici, ampi accumuli morenici, numerosi laghi alpini e altipiani. L'ambiente naturale è caratterizzato da ampi pascoli contornati da lariceti, con sottobosco di rododendri e mirtilli, che sfumano nelle praterie d'alta quota. La grande varietà di ambienti determina la presenza di numerose specie floristiche e faunistiche di grande interesse naturalistico. La grande varietà di ambienti, diversi sia dal punto di vista ecologico che climatico ed edafico, consente di trovare all'interno del Parco e nelle zone limitrofe una grande varietà di vegetazione, dai pascoli pingui delle quote più basse fino alle associazioni pioniere rupicole delle vallette nivali. Condizioni climatiche particolari, insieme con diversi tipi di terreno, inoltre rendono possibile la fioritura contemporanea di specie che fiorirebbero in periodi distinti dell'anno, facendo di alcune zone del Parco un giardino botanico alpino, nel quale si possono trovare fino a cinquecento specie diverse, alcune delle quali si sono rivelate particolarmente insolite in questa zona. Le due conche prative dei piani di Veglia e di Devero presentano simili caratteristiche: molto umide e paludose, sono state progressivamente bonificate per aumentare la produzione di foraggio. Tuttavia le zone umide permangono in tutta la zona, distribuite su diverse altitudini. Vi potremo trovare carici, la drosera rotundifolia, piccola pianta carnivora, la primula farinosa, la menyanthes trifoliata, la viola palustris, la caltha palustris, gli equiseti, gli eriofori. Nelle zone pianeggianti, i pascoli sono dominati dalle graminacee, dalle ciperacee, da piantaggini e composite, tra le quali non sarà difficile riconoscere i precoci crochi, la bella gentiana acaulis, la biscutella laevigata, il rinanto, alcune orchidacee. Una grande superficie del territorio, tra 1.500 e 2.000 m, è occupata da boschi, costituiti essenzialmente, nelle zone ad alta quota, da larici, mentre scendendo d'altitudine, la presenza dell'abete rosso, dell'abete bianco e di latifoglie quali il sorbo degli uccellatori, il sorbo alpino, il sorbo montano, salici, ontani, rarissime betulle, si fa sempre più cospicua.

Sui versanti delle montagne a componente calcarea, più dolci e senza grossi ostacoli, il bosco è più esteso, mentre sui versanti delle ripide montagne a carattere siliceo esso è più rado, interrotto frequentemente dai salti di roccia, dai canaloni delle valanghe o dalle frane. Il tipico sottobosco del lariceto è costituito da un tappeto di rododendri e di mirtilli. La coltre di rododendri è particolarmente fitta sui versanti meno esposti al sole, dove la neve perdura maggiormente, proteggendo le gemme dal gelo, mentre su quelli più esposti troveremo piuttosto i ginepri nani, più resistenti a condizioni estreme. Con un po' di fortuna, passeggiando tra i larici, su pendii un poco ombreggiati, potremo incontrare uno dei fiori endemici alpini più belli : l'ormai rara aquilegia alpina. Salendo oltre il limite del bosco, la vegetazione si fa sempre più bassa e rada: la brughiera a rododendro prosegue verso l'alto riconquistando i territori dei pascoli in disuso. Alcune specie degli antichi pascoli riescono a sopravvivere, ad esempio la gialla margherita dell'arnica. A quote più elevate le aree aperte e soleggiate sono dominate da praterie di graminacee e ciperacee, dove in alcune zone, le piante, senza neanche più la protezione della neve, continuamente spazzata dal vento, devono sopportare escursioni termiche annuali di quasi 80 °C. In zone particolarmente esposte alle intemperie, al vento in particolare, la vegetazione delle lande è caratterizzata da bassissime pianticelle legnose, quali l'azalea alpina, la dryas octopetala, l'uva orsina, i salici nani. Giungendo poi alle morene, ai detriti e alle rocce, ecco che, i colori dei fiori diventano sempre più intensi per attirare l'attenzione degli insetti impollinatori. Potremo così ammirare cuscinetti di silene, il crisantemo alpino, il miosotys azzurro, il ranuncolo glaciale e l'astro alpino, il genepì maschio e femmina e molti altri. In estate, in alto, sugli ampi terrazzi erbosi dei pendii ben soleggiati, più in basso nella stagione fredda, numerosi camosci sono da tempo una presenza costante, così come è costante è ormai la presenza stagionale di numerosi caprioli, che preferiscono tenersi nel folto dei boschi. Comparsa invece molto recente è quella dei cervi, che nel Parco sono riusciti a trovare un territorio ideale per la riproduzione. La presenza dello stambecco è ormai stabile a partire dagli anni '90 in seguito a reintroduzioni effettuate nei territori limitrofi al Parco. Allegra compagna di ogni gita è la marmotta, curiosa sentinella pronta a fischiare ad ogni minimo pericolo. è molto spesso questo attento roditore ad avvertirci, con un caratteristico fischio d'allarme, della presenza della sua gran nemica naturale, l'aquila reale. Altri mammiferi più riservati sono la lepre bianca, le numerose volpi, il frenetico ermellino, il tasso, lo scoiattolo. Tra i più piccoli e numerosi abitanti, seppur difficili da vedere, vi sono toporagni e arvicole. Oltre all'aquila, altri rapaci sono la poiana, l'astore, lo sparviero, il gheppio e tra i notturni il gufo, la civetta capogrosso e la civetta nana. Sempre tra gli uccelli ricordiamo la pernice bianca e il fagiano di monte, che nel Parco raggiungono densità elevate, la coturnice, i picchi (rosso maggiore, nero e verde), il merlo acquaiolo, il merlo dal collare, il codirosso, la passera scopaiola, lo stiaccino, il sordone, il culbianco, il crociere, il fringuello alpino, il verzellino, le cince (mora, alpestre, dal ciuffo), l'organetto, gli zigoli, la ghiandaia, il gracchio, il corvo imperiale. Tra i rettili, cosa poco risaputa, svolgono un'importante funzione ecologica le vipere, timorose e quindi ben difficili da incontrare oltre alla lucertola vivipara e lucertola delle muraglie. Ambienti da considerare con attenzione sono le zone umide e i laghetti: è qui che si possono osservare la rana temporaria e il tritone alpestre, oppure i veloci ditiscidi e le loro larve, o ancora piccolissimi crostacei sospesi, mentre grosse libellule volteggino sul pelo dell'acqua.

L'ECONOMIA

Regione a forte vocazione industriale per tutto il XX secolo, il Piemonte va perdendo questa sua specificità, per allinearsi con la struttura economica delle altre regioni europee a economia avanzata, in cui a un settore manifatturiero sempre robusto si affiancano attività terziarie non solo di base, come il commercio e il turismo, ma anche più sofisticate, come i servizi alle imprese, le attività finanziarie e la ricerca scientifica e tecnologica. Come accade in tutta l'Italia settentrionale, il processo non è però indolore, traducendosi in una perdita consistente di posti di lavoro stabili (mentre aumentano gli impieghi atipici e precari) e in una generale perdita di peso economico, soprattutto rispetto alle regioni del Nordest e del versante adriatico. Il settore primario dà occupazione a una piccola parte della popolazione; ciononostante l'agricoltura è una delle più produttive d'Italia. Grazie all'utilizzo intelligente delle risorse idriche (come il Canale di Cavour, che sfrutta le acque delle risorgive per irrigare più di 100.000 ettari di territorio del Vercellese e del Novarese), si è sviluppata infatti un'agricoltura assai ricca. Pianure e colline sono intensamente coltivate. Molto pregiati sono i vini che si producono con le uve maturate sulle colline di Cuneo, Asti e Alessandria: Barolo, Barbaresco, Grignolino, Nebbiolo, Freisa, Barbera e molti altri. Le zone pianeggianti producono grano, granoturco, avena, canapa e foraggi. In tutta la regione diffusa è la coltivazione degli alberi da frutto. Il riso è un tipico prodotto delle pianure vercellesi e novaresi; è di ottima qualità e assai abbondante, tanto che il Piemonte fornisce da solo più della metà del riso italiano. Fiorente è l'allevamento del bestiame, soprattutto quello bovino, diffuso nelle zone alpine. Lo sviluppo dell'industria piemontese è segnato da alcune tappe salienti. La prima è quella immediatamente successiva all'Unità d'Italia: persa la sua funzione di capitale, Torino avviò una decisa politica di industrializzazione - anche investendo in infrastrutture i capitali ricevuti come indennizzo - utilizzando in un primo tempo, come forza energetica, l'acqua di numerosi canali. La diffusione dell'elettricità consentì di potenziare queste industrie, soprattutto tessili e meccaniche, avvantaggiando al tempo stesso agli inizi - quando ancora non era possibile trasmettere l'energia a distanza - l'industrializzazione delle basse valli, vicine ai primi impianti idroelettrici. La seconda fase è quella del decollo dell'industria automobilistica, dagli inizi nel XX secolo: Torino divenne rapidamente il maggiore polo italiano dell'auto, intorno a cui nacquero numerosi altri stabilimenti di subfornitura. La terza fase è quella del "miracolo economico", fra gli anni Cinquanta e Sessanta: non solo la FIAT e il suo indotto si ingigantirono, attirando numerosa manodopera dal Mezzogiorno, ma l'industria si diffuse in tutta la regione, trasformando in centri industriali città di antica tradizione agricola e commerciale come Asti, Cuneo e Vercelli. Infine, l'ultima fase, iniziata neglia anni Ottanta e ancora in corso, non è più di sviluppo, ma di recessione: l'industria regredisce, cedendo spazio al terziario e lasciando dietro di sé grandi stabilimenti abbandonati, che si cerca di recuperare e riqualificare. Il comparto più sviluppato è tuttora quello meccanico, nel quale primeggia l'industria automobilistica dell'area metropolitana torinese, rappresentata essenzialmente dalla FIAT, cui si affianca tutta una serie di attività collaterali, che negli ultimi decenni del XX secolo hanno subito un significativo ridimensionamento a causa della crisi del settore automobilistico. La stessa crisi aveva colpito l'Olivetti di Ivrea, una delle maggiori industrie italiane nel campo dell'informatica, delle macchine per ufficio e delle telecomunicazioni. La connessione fra l'industria meccanica e quella informatica ha però favorito lo sviluppo della branca tecnologicamente più innovativa dell'industria piemontese, quella delle macchine utensili a controllo numerico e della robotica. Ulteriore punto di forza del settore manifatturiero è quello tessile, sia laniero (Biellese e bassa Valsesia) sia cotoniero, con localizzazione più diffusa. Sono presenti anche grandi stabilimenti siderurgici e chimici, cementifici (soprattutto intorno a Casale Monferrato) e numerosi mobilifici. Discreto sviluppo ha l'industria alimentare e, in particolare, quella dolciaria, di antica tradizione a Torino e più di recente (dal dopoguerra) sviluppatasi ad Alba con una delle maggiori aziende mondiali del settore, la Ferrero. A Torino e a Nova hanno inoltre sede alcune fra le più importanti aziende grafiche e case editrici (tra cui De Agostini, UTET, Einaudi). Come in tutte le regioni italiane, il settore terziario è quello che occupa più manodopera, grazie alla notevole offerta di lavoro nel commercio, nella pubblica amministrazione e nei trasporti. Accanto a queste attività terziarie tradizionali, se ne stanno sviluppando di nuove e più sofisticate, come i servizi alle imprese (che subiscono però la pesante concorrenza di Milano) e la ricerca scientifica e tecnologica, in cui invece il Piemonte può vantare punte di eccellenza a livello internazionale, in particolare nei campi della meccanica, dell'informatica e delle telecomunicazioni. Hanno sede a Torino e a Novara anche alcuni istituti bancari di importanza nazionale e Torino è uno dei maggiori centri italiani nel campo delle assicurazioni. Gli enti locali piemontesi stanno compiendo grandi sforzi per potenziare le attività turistiche del Piemonte, spesso visto dagli stranieri più come regione di transito che come meta da visitare. Non mancano in effetti le attrattive turistiche, dalle residenze sabaude, nei dintorni di Torino, ai centri montani (come Sestriere, Macugnaga, San Sicario, Alpe di Mera, Limone Piemonte e altri, alcuni dei quali sedi delle Olimpiadi invernali del 2006), dalle sponde del Lago Maggiore al prestigio enogastronomico di regioni come le Langhe e il Monferrato.

CENNI STORICI

Protostoria

Cercare le radici della civiltà porta inevitabilmente a confrontarsi con le caratteristiche geografiche della terra su cui si sviluppano. Gli antichi abitanti del Piemonte dovettero confrontarsi con paesaggi assai diversi, adattandosi con l'evolversi della civiltà stessa. Prima cacciatori dell'antica Età della Pietra, poi contadini sedentari del Neolitico, infine grandi tribù durante l'età dei metalli. Le colline del centro-Sud, ricche di aree boscose, furono sede dei primi insediamenti documentati: cacciatori di 150-100.000 anni fa, nell'Astigiano e nella zona di Trino, quando ancora il Po non c'era. Questi primi abitanti furono soppiantati, attorno al 5000 a.C., da gruppi di contadini, nascono villaggi (Alba) e iniziano i primi commerci. Il Piemonte, simile a quello odierno, affonda le sue radici attorno al 1000 a.C., quando le diverse zone e tribù vengono in contatto stabilmente e attraverso la regione iniziano a transitare le merci tra Nord e Sud Europa. Fino al V secolo a.C. nella regione vivono etnie ben differenziate: a Nord gli Insubri di lingua celtica, nella zona del Canavese i Salassi, i Taurini di tradizione franco-alpina nel Torinese, gli Statelli e i Langates di tradizione liguro-provenzale nel Monferrato, nel Cuneese i Bagienni. Solo l'espansione gallica del secolo successivo conferisce al Piemonte una maggiore omogeneità.

Età romana

L'espansione romana vera e propria dell'area alpina occidentale fu preceduta da accordi di tipo federativo con alcune delle tribù presenti sul territorio. Il primo nucleo abitativo romano si sviluppò tra il 173 e il 125 a.C., nella zona fra il Po, il Tanaro e la Stura (Pollentia = Pollenzo). Pochi decenni dopo fu fondata Dertona (l'attuale Tortona), come guardia alla via Aemilia Scauri, con il conseguente sorgere di grandi aziende agricole nel Monferrato. Nel 100 a.C. fu costruita la colonia di Eporedia (l'odierna Ivrea), allo scopo di difendere il territorio dalle incursioni delle tribù celtiche della Valle d'Aosta. Il I sec. a.C. rappresenta un periodo di intensa romanizzazione: le mire di espansione coloniale oltre le Alpi obbligarono i Romani ad estendere il controllo su tutto il Piemonte e in quest'ottica si inserì la concessione della cittadinanza latina alla Cispadania nell'89 a.C. (di cui beneficiarono città come Alba e Acqui Terme). Un ulteriore impulso venne dal piano augusteo di conquista e organizzazione dell'intero arco alpino: furono fondate nuove colonie (Augusta Taurinorum = Torino, Augusta Praetoria = Aosta, Vercellae = Vercelli e Novaria = Novara), riorganizzate le vie commerciali e l'assetto amministrativo. La situazione rimase invariata fino al III-IV sec. d.C., per poi mutare radicalmente con le invasioni barbariche e la caduta dell'Impero romano d'Occidente nei secoli successivi.

Alto Medioevo

Fra il V e VI secolo tre popolazioni non autoctone combatterono per il controllo del Piemonte: Bizantini, Burgundi e Goti. Dopo il 568 il Piemonte, occupato dai Longobardi venne diviso in quattro ducati: Torino, Asti, Ivrea e S. Giulio d'Orta. Carlo Magno invase l'Italia attraverso la Valle di Susa nel 773: i Franchi si imposero come ceto dominante, sovrapponendosi alle etnie locali e organizzando un ordinamento provinciale, che sopravvisse alla crisi dell'Impero franco nell'888. Alla fine del IX sec. il Piemonte risultava governato dall'unica marca d'Ivrea, affidata alla famiglia degli Anscari. Intorno al 950 questa marca si articolò in quattro nuove marche: una con centro a Torino, detta "arduinica"; due a Sud-est, una "aleramica" e una "obertenga"; una ridotta marca d'Ivrea. Il famoso marchese d'Ivrea Arduino fu l'ultimo re italico, prima dell'unione delle corone d'Italia e di Germania. Dopo la sua morte nel 1050, in quasi tutto il Piemonte aumentò il potere dei vescovi e iniziarono a diventare potenti alcune nuove casate: i marchesi di Saluzzo a Sud e i conti di Savoia in Val di Susa.

Basso Medioevo

In seguito al disgregamento dell'ordine stabilito con l'Impero carolingio, le comunità cittadine si organizzano in liberi comuni, che, all'avvento di Federico Barbarossa (metà del XII sec.), lotteranno uniti nella Lega Lombarda. Proprio durante la lotta contro l'imperatore la Lega edificò la "città nuova" di Alessandria. Nel corso del XIV sec. perdono di importanza i comuni cittadini, sottomettendosi alle dinastie presenti sul territorio: i conti di Savoia controllano ora le valli di Susa e di Lanzo, Ivrea e il Canavese, poi Cuneo; i principi d'Acaia dominano sul Pinerolese, su Torino e nelle zone limitrofe verso Sud; i marchesi di Saluzzo possiedono il territorio del Saluzzese e delle valli del Piemonte meridionale. Il Piemonte Sud-orientale (Novara, Vercelli, Asti e Alessandria) è sottomesso alla casata dei Visconti di Milano. Nonostante l'articolata composizione politica, in questo secolo il Piemonte inizia ad essere individuato come entità geografica.

Prima età moderna

Tra il Quattro e il Cinquecento si allarga il controllo sabaudo sulla regione: il duca Amedeo VIII subentra nel territorio dei principi d'Acaia, poi ottiene Vercelli dai Visconti. In seguito, nel 1531, l'imperatore Carlo V concede alla cognata Beatrice, moglie di Carlo II di Savoia, la contea di Asti e il marchesato di Ceva. Ciò nonostante il Piemonte in questo periodo è spesso teatro di scontri e di occupazioni militari provocati dalla guerra tra Francia e Spagna. Solo nel 1559 con il Trattato di Cateau- Cambrésis, Emanuele Filiberto di Savoia otterrà il controllo dei suoi territori. I territori, i gruppi sociali e religiosi che entrano a far parte dello stato sabaudo a partire da metà Cinquecento non sono omogenei: con la maggioranza cattolica convivono piccoli nuclei ebraici e gruppi di protestanti nelle città e nelle valli. Permangono forti tradizioni istituzionali locali, la stessa giustizia a volte si sottrae al controllo di Torino; le varie regioni non seguono una politica comune dividendosi tra filospagnoli e filofrancesi. Anche le risorse economiche sono molto differenti da zona a zona; solo una serie di nuove attività integrative attenua i contrasti economici. In particolar modo si sviluppa l'allevamento e la tessitura domestica della seta e verso la fine del Seicento, con l'introduzione del mulino da seta, nasce una precoce economia industriale. Il Seicento rappresentò il secolo di formazione vera e propria dello stato sabaudo: vi furono tentavi prolungati di impadronirsi e addomesticare territori tanto diversi. Tentativi che si concretizzarono nella formazione di un apparato statale fortemente centralizzato, con nuove leggi e imposte a volte inique, per fronteggiare nuove guerre. Anche in questo senso si può interpretare la costruzione delle regge sabaude su quasi tutto il territorio piemontese. Protagonista dell'ultima parte del secolo fu Vittorio Amedeo II di Savoia che sale al trono con un piccolo colpo di Stato destituendo la madre, Giovanna Battista di Savoia-Nemours, il 16 febbraio 1686 e subito si trova a dover sottostare al volere dell'ingombrante vicino, il Re Sole. Il duca di Savoia è praticamente vassallo del re di Francia, grazie alla politica filofrancese fin'ora svolta dalla madre reggente in sua vece, francese essa stessa, legata da stretta parentela a Luigi XIV, ed al matrimonio da lui contratto con Anna d'Orléans, nipote del re. Ecco quindi che decide di stringere alleanza con l'Impero; a Vienna, inoltre, risiede il cugino, Principe Eugenio di Savoia-Carignano-Soissons, anch'egli fuggito dall'asfissiante corte di Versailles, inizialmente avviato alla carriera ecclesiastica ed ora grandissimo condottiero venerato dalla corte imperiale, prossimo a debellare per sempre l'incubo turco dall'Europa nella battaglia di Zenta (1697). Entra così a far parte della Lega di Augusta, voluta da Guglielmo d'Orange, re d'Inghilterra. Riuniva tutte le potenze antifrancesi dell'epoca, in gran parte protestanti: Gran Bretagna, Olanda, i principati di Hannover, Sassonia, Baviera e Brandeburgo, Spagna, Svezia e Impero Germanico. Lo scontro con la Francia sfocia nella famosa battaglia della Marsaglia (1693).

Il Settecento

Nel XVIII secolo Vittorio Amedeo attua una profonda riorganizzazione amministrativa, la "perequazione dei tributi": un lungo processo di verifica delle immunità fiscali ecclesiastiche e nobiliari, dei titoli di proprietà e della qualità della terra. La formazione di una burocrazia e di un esercito efficiente, lo sviluppo dell'istruzione, attira sempre più gente dalle campagne; in particolare verso Torino grazie anche all'allargarsi della corte sabauda. Sotto Carlo Emanuele III, il ducato sabaudo, in seguito ad una cruenta fase di riassetto dinastico del Sacro Romano Impero, fu protagonista di una nuova fase espansionistica che portò i confini dello stato fino al Lago Maggiore e al Ticino. Di questo periodo si ricorda la battaglia dell'Assietta (17 luglio 1747) e la valorosa resistenza delle truppe piemontesi, che riuscirono a sconfiggere l'esercito francese. Nella seconda metà del secolo, le crisi economiche diventano più frequenti: nelle città e nella capitale sono le istituzioni assistenziali, soprattutto religiose, ad aiutare la popolazione impoverita. L'ondata rinnovatrice dell'Illuminismo non riesce a far breccia nell'edificio assolutistico sabaudo, se non con l'arrivo delle armate francesi comandate da Napoleone nel 1796.

L'Ottocento

Il secolo XIX si apre sotto le insegne del dominio napoleonico: nel giugno del 1800 l'imperatore riporta a Marengo, in provincia di Alessandria, una delle sue più famose vittorie. Terminato il periodo napoleonico, il Piemonte poteva vantare, all'indomani della Restaurazione, una identità relativamente omogenea oltre ad un senso spiccato della propria individualità. Il periodo risorgimentale portò gli influssi del liberalismo europeo e i fermenti politici e ideali provenienti dai numerosi esuli, rifugiatisi a Torino da ogni parte della penisola. La parte centrale del secolo vide la regione e in particolare la monarchia sabauda impegnate nell'unificazione dell'Italia, iniziata con i primi moti nel 1821, proseguita con le guerre d'indipendenza (battaglia di Novara - 1849) e portata a termine, con l'esclusione di Roma, nel 1861. Le riforme cavouriane produssero, a loro volta, sensibili mutamenti nell'assetto economico e sociale della regione, ancora molto antiquato rispetto ai moderni stati europei. Si avviarono le prime manifatture su scala industriale e si avviò una conduzione più capitalistica delle campagne, basata sullo sviluppo degli investimenti fondiari e sul rinnovamento delle colture. Dopo l'unificazione il Piemonte si trovò ad affrontare, a seguito del trasferimento nel 1864 della capitale del nuovo Regno d'Italia da Torino a Firenze, una travagliata fase di transizione. L'economia agricola venne messa a dura prova dalla recessione che imperversò per oltre due decenni in Europa e dalla guerra doganale con la Francia. Torino, perso il primato politico subì anche una serie di tracolli finanziari delle principali banche, coinvolte nella speculazione edilizia a Roma, nel frattempo diventata ultima e definitiva capitale dello Stato italiano. Solo all'inizio del nuovo secolo la regione superò la crisi, in coincidenza con la svolta liberale della politica di Giolitti, quando finì anche la lunga recessione dell'economia italiana.

Il Novecento

Nel corso del Novecento il Piemonte è stato protagonista di importanti movimenti sotto ogni profilo. A Torino il liberalismo ha annoverato esponenti illustri come Giolitti, Ruffini, Luigi Einaudi, Piero Gobetti; nelle fabbriche il movimento operaio e socialista ha compiuto le sue prime esperienze di sindacato; nella capitale subalpina è nato il Partito comunista di Gramsci e Togliatti; contemporaneamente il capitalismo italiano ha conosciuto alcune delle sue stagioni più significative con la Fiat di Agnelli o l'Olivetti. Nel capoluogo piemontese hanno fatto i primi passi il cinema, il telefono, la radio, la televisione, la moda, il calcio. Torino, in seguito alla forte espansione industriale, divenne la meta di un esodo quasi biblico della gente proveniente dal Sud Italia, in cerca di lavoro; un fenomeno sociale senza pari nella storia italiana, che portò anche forti tensioni sociali tra persone provenienti da diverse culture. La città resta comunque specchio esemplare dell'universo piemontese, dei suoi retaggi tradizionali e delle sue spinte più innovative. Il Piemonte è la regione dove si concentra una delle più alte quote di piccoli proprietari contadini e il maggior numero di borghi e villaggi. Ma è anche la regione che, accanto a questi segni di continuità con il passato, ha saputo rinnovarsi nell'ottica della modernità. Il torinese e il biellese hanno accentuato la loro vocazione industriale; il canavese e le Langhe hanno saputo creare una fiorente industria integrata con il territorio, così come i territori tradizionalmente più poveri dell'astigiano, dell'alessandrino, del novarese e del vercellese, rimasti avvolti in un lungo letargo. Verso il nuovo secolo, il Piemonte torna ad essere una società di frontiera, proiettata verso l'Europa, dove avranno sempre più importanza il sapere scientifico, la capacità di progettazione e la trasmissione di nuove conoscenze, legate però ad un profondo senso di appartenenza al territorio.

IL PERCORSO ARTISTICO E CULTURALE

Dall'antichità all'anno Mille

Prerogativa peculiare del Piemonte, densa di riflessi in campo artistico, è di essere terra di confine tra due mondi: quello mediterraneo a Sud e quello dell'Europa continentale a Nord; confine tuttavia assai permeabile poiché da sempre attraversato, nelle due direzioni di marcia, da eserciti, mercanti, pellegrini che, muovendosi lungo la Via Francigena (già strada consolare romana, oggetto di accurata manutenzione fino al tardo Impero), valicavano i suoi passi valsusini (Moncenisio e Monginevro) e valdostani (Grande e Piccolo San Bernardo) e anche il Sempione all'estremo della Val d'òssola, come attestano i più antichi materiali di produzione romana emersi dalla necropoli di Ornavasso (I-II secolo a.C., ora al Museo del Paesaggio di Verbania). L'intera romanizzazione della regione si era completata sotto Augusto e fu suggellata dagli archi a lui dedicati a Susa (c. 8 a.C.) e ad Aosta (25 a.C.). A questo imperatore si deve la creazione di tre capisaldi dell'organizzazione del territorio: Augusta Taurinorum (Torino), Augusta Bagiennorum (Bene Vagienna), e Augusta Praetoria (Aosta). Anche l'epoca tardo-antica lasciò segni tangibili, come attestano le trasformazioni alla cinta muraria di Susa e la costruzione della porta Savoia poi addossata alla Cattedrale (III sec. d.C.) o il sarcofago di Elio Sabino (Testona, Museo Civico), legato alla cultura di derivazione greco-ellenistica, forse giunto a Testona dalla zona di Aquileia-Grado. La diffusione del Cristianesimo ricalcò la situazione consolidata nei secoli dell'Impero romano; gran parte delle chiese furono fondate su precedenti nuclei romani, come accadde alla primitiva sede vescovile di Aosta (V sec.), trasformatasi poi nella cattedrale romanica, edificata appunto su un preesistente edificio romano. Eccezionale esempio superstite di quest'età è l'ottagonale battistero di Novara (V-VI secolo, modificato tra X e XI, epoca a cui appartengono gli affreschi del tiburio) da cui discendono quelli di Settimo Vittone e di San Ponso Canavese. Anche i Longobardi posero particolare attenzione alla conquista di posizioni strategiche di confine individuate nelle "chiuse" della Val di Susa e in quella di Belmonte, unico abitato barbarico del Piemonte (VI-VII secolo), mentre sedi ducali longobarde erano a Torino, Ivrea, Asti. Importanti reperti longobardi provenienti dalla necropoli di Testona (VI-VII secolo) e dalla tomba di Borgo d'Ale (VII sec.) sono ora conservati al Museo di Antichità di Torino, mentre al Museo Civico d'Arte antica è il tesoro di Desana (Vercelli) che comprende splendidi gioielli ostrogoti (V-VI secolo).

Il Romanico e le suggestioni transalpine

L'intensa attività edificatoria che prese l'avvio dopo l'anno Mille lasciò in Piemonte molteplici esempi di alto livello. Lo testimonia in particolare la città di Aosta, che sotto il vescovato di Anselmo vide riedificata la Cattedrale e fondata la chiesa dei Ss. Pietro e Orso; il chiostro di quest'ultima, unico esempio superstite a capitelli istoriati di tutta l'Italia settentrionale, è di poco più tardo poiché legato al vescovo Erberto e datato 1132. Entrambe le chiese furono interamente affrescate (come attesta quanto sopravvive ancora nei rispettivi sottotetti) entro la prima metà dell'XI secolo. Negli stessi anni il vescovo di Ivrea Warmondo faceva ricostruire la propria cattedrale (ma non rimane oggi che la zona absidale) e fondava quel famoso "sciptorium" che produsse, tra gli altri codici, il celebre Sacramentario di Warmondo. Al suo grande avversario Arduino e al famoso architetto e monaco Guglielmo da Volpiano (961-1031), è legata l'abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese. Anche Arduino ebbe un acerrimo nemico: il vescovo di Vercelli, Leone (999-1026), che nell'anno Mille ottenne dall'imperatore Ottone III i beni del marchese d'Ivrea; a lui si deve la costruzione dell'antico Duomo vercellese, raso al suolo fra XVI e XVIII secolo, ricco di meravigliosi arredi tra cui il monumentale Crocifisso d'arco trionfale in lamina d'argento (1000-1020) ora splendidamente restaurato. In area novarese è ancora possibile vedere straordinarie testimonianze di questa stagione negli affreschi della chiesa di S. Tommaso a Briga Novarese e in S. Michele a Oleggio; ma il più affascinante monumento di scultura romanica di tutta la provincia si trova nella basilica di S. Giulio, sull'omonima isola del Lago d'Orta; si tratta del pulpito in marmo nero (1110-20), opera di uno scultore lombardo. La geografia favorì, anche in questa età, la nascita di fondazioni in luoghi strategici; due grandi esempi sono l'abbazia di Novalesa e quella di S. Michele della Chiusa, punti di osmosi tra la cultura oltralpe e quella lombarda. La prima conserva, nella Cappella di S. Eldrado, un famoso ciclo di affreschi databile alla fine dell'XI secolo, mentre la celebre Sacra di S. Michele, fondata tra il 983 e il 987, ha il proprio gioiello nel portale del grande Nicolò, la cui formazione crebbe sull'altissima tradizione inaugurata da Wiligelmo nella cattedrale di Modena. Il passaggio dal Romanico al Gotico venne giocato in Piemonte con soluzioni di compromesso tra le forme della tenace tradizione lombarda e le nuove suggestioni oltremontane. Di grande rilievo per la penetrazione del nuovo linguaggio, fu la costruzione di molteplici abbazie cistercensi che sorsero a partire dalla metà del XII secolo; tra le più importanti quelle di Staffarda (Saluzzo), interamente in cotto, Lucedio (Vercelli), Rivalta Scrivia (Novara) e la canonica di S. Maria di Vezzolano, gioiello del Medioevo piemontese. Ma il vero monumento del primo Gotico piemontese è costituito da S. Andrea di Vercelli, voluto dal cardinale Guala Bicheri nel 1219.

La lunga parabola gotica e il Quattrocento

Lo sviluppo dell'architettura gotica in Piemonte a partire dal XIII secolo si deve alla spinta dei grandi ordini mendicanti (soprattutto francescani e domenicani) alla costruzione di nuove sedi di culto; a questa si affiancò la diffusione di un'architettura militare e difensiva legata alla nobiltà feudale (si pensi alle torri che punteggiavano la Valle d'Aosta, trasformate nel Trecento in potenti castelli) che permeò di sé il panorama della regione. Ai domenicani si deve l'unica chiesa gotica torinese ancora esistente: S. Domenico, che conserva un raro ciclo ad affresco databile alla metà del Trecento. Negli stessi anni gli Agostiniani fondarono, a Vercelli, S. Marco (oggi sede del mercato), conclusa nel XV secolo, mentre i francescani edificarono i loro complessi conventuali a Vercelli (1292), a Cuneo (fine XIII sec.), ad Alessandria (consacrato nel 1314) e ad Aosta (metà Trecento). Le chiese gotiche piemontesi, generalmente a tre navate e costruite in laterizio, furono partecipi delle scelte culturali lombarde; un'eccezione, più aderente al gusto oltralpino, fu la Cattedrale di Asti. Suggestioni legate all'Oltralpe si trovano anche in quanto di più eletto si conserva della pittura astigiana di metà Trecento: gli affreschi della cappella del castello di Montiglio e della seconda campata del chiostro di S. Maria di Vezzolano; diverso orientamento mostra l'area alessandrina, allineata alle tendenze lombarde, come indicano gli affreschi della ex Sala capitolare di S. Francesco a Cassine (entro la metà del Trecento) o la più tarda decorazione dell'abside maggiore di S. Giustina di Sezzàdio, ormai piena espressione del Gotico internazionale. Il massimo rappresentante di questo gusto fu il torinese Giacomo Jaquerio, pittore degli Acaia, dei Savoia e di potenti istituzioni ecclesiastiche; educato alla maniera che si era definita presso le grandi corti di Francia, divenne punto di riferimento per la pittura nel Piemonte occidentale nel corso di tutta la prima metà del XV sec. La sua prova più intensa si trova nel complesso abbaziale di S. Antonio di Ranverso, dove l'artista si espresse su differenti registri: raffinatissimo ed elegante nella Madonna in trono del presbiterio, appassionatamente drammatico nella Salita al Calvario della sagrestia. A un maestro di stretta osservanza jaqueriana si deve il bel ciclo, voluto da Bonifacio I di Challant, eseguito intorno agli anni '20 del Quattrocento nella ex sala-cappella e nel cortile del castello di Fénis. L'apertura degli artisti piemontesi a fatti culturali europei è documentata anche da un eletto esempio scultoreo qual è la Madonna col Bambino del Duomo di Chieri databile al secondo decennio del Quattrocento e partecipe delle tendenze borgognone. Il Duomo di Chieri, ricostruito a partire dai primi anni del XV secolo con un fortissimo sviluppo verticale del coronamento dei portali, che troverà ampia eco in Piemonte, conserva nel suo battistero un altro importante episodio decorativo: il ciclo della Passione (post 1432) di Guglielmetto Fantini che innovò la lezione jaqueriana su cui era cresciuto, come dimostra il bel trittico, firmato e datato 1435, ora al Museo d'Arte antica di Torino. La Chieri quattrocentesca era una delle città economicamente più importanti della regione per la presenza di ricche famiglie di banchieri e di mercanti; tra le più prestigiose fu quella dei Villa, in rapporto con le Fiandre, che scelse, per arredare le proprie cappelle, due opere precoci di Rogier van der Weyden destinate a incidere profondamente sulla cultura locale: il celebre trittico dell'Annunciazione (ora a Parigi, Louvre), le cui ante laterali sono conservate alla Galleria Sabauda, e quello della Crocifissione (ora a Riggisberg, coll. Abbeg). Diverse le tendenze di gusto dell'area orientale del Piemonte, da sempre legate alla maniera lombarda (come testimonia l'attività di Johannes de Campo in terra novarese o il ciclo di affreschi di casa Zoppi a Cassine, presso Alessandria), e della Valle d'Aosta, rivolta al mondo oltralpino. Il grande mecenate che, a partire dagli anni Settanta fino alla morte (1509), arricchì le proprie dipendenze valdostane fu Giorgio di Challant, priore di S. Orso, promotore della decorazione del priorato e della collegiale, che seppe trasformare il castello di Issogne, di cui divenne feudatario nel 1494, in una ricca dimora signorile. Qui lavorò tale Colin, artista già attivo a Ivrea; a lui si devono il ciclo della cappella del castello di Issogne e le famose "Botteghe" del portico, mentre un altro personaggio, fortemente segnato dalla maniera borgognona, decorò la grande Sala di Giustizia. Per Giorgio di Challant lavorò anche un miniatore oltralpino che ornò i due messali del priore (l'uno in collezione privata torinese, il secondo in S. Orso). è solo in anni recentissimi che la critica ha ricostruito l'attività dell'artista più significativo del Piemonte del secondo Quattrocento, destinato a lasciare profonda traccia di sé nell'area Nord-occidentale, ed è riuscita a dargli un nome: si tratta del borgognone Antonio de Lonhy, straordinario epigono delle innovazioni fiamminghe; è documentato nel 1462 al castello sabaudo di Avigliana, ma lo conosciamo a Tolosa e a Barcellona come pittore, miniatore, disegnatore per ricami e maestro vetraio. Tra le opere più importanti a lui attribuite sono il polittico con Storie di S. Pietro (Aosta, già in S. Orso), la tavola della Trinità (Torino, Museo d'Arte antica), le Ore di Saluzzo (Londra, British Library), Il "Breve dicendorum compendium" (Torino, Biblioteca Nazionale), gli affreschi del presbiterio e della Cappella Provana all'abbazia della Novalesa. Negli stessi anni nell'area compresa tra Casale, Ivrea e Vercelli, andava crescendo una nuova figura d'artista: Giovanni Martino Spanzotti, formatosi sull'opera del Cossa bolognese, capace di assimilare i caratteri peculiari della luminosità pierfrancescana e di confrontarsi con la cultura del secondo Quattrocento provenzale. Fondamentale testimonianza della sua prima maniera sono la Madonna Tucker (Torino, Museo d'Arte antica) e il ciclo con le Storie della vita di Cristo nella chiesa di S. Bernardino di Ivrea; tra il 1486 e il 1495 si situa la sua attività al Sacro Monte di Varallo, per il quale eseguì il gruppo libero di sculture lignee, la cosiddetta Pietra dell'Unzione (Varallo Sesia, Pinacoteca). Le proposte di questo artista, la cui attività si inoltra nel Cinquecento, ebbero un'ampia eco soprattutto tra gli allievi della sua bottega chivassese, primo fra tutti Defendente Ferrari. Alternativo a Spanzotti fu Macrino d'Alba, legato alla pittura rinascimentale tosco-romana del tardo Quattrocento; tra le sue opere più significative sono la Madonna col Bambino e santi(1495, Torino, Museo d'Arte antica) e l'ancona per il santuario di Crea (1503). In area occidentale la più alta personalità a cavallo tra i due secoli fu quella di Hans Clemer (già noto come Maestro d'Elva), attivo per la corte marchionale dei Saluzzo e cresciuto su esperienze figurative provenzali, da Quarton a Lieferinxe. Oltre il ciclo della parrocchiale di Elva, di lui si ricordano in particolare la Madonna col Bambino della parrocchiale di Celle Macra (1496) e la Madonna di Misericordia (c. 1498, Saluzzo, Museo di casa Cavassa). è ancora la terra dei marchesi di Saluzzo che vede gli ultimi esempi di architettura gotica in Piemonte. Tra il 1491 e il 1501 viene eretto il nuovo Duomo, dalla navata centrale assai sopraelevata; negli stessi anni avviene la trasformazione del coro della chiesa d. S. Giovanni in cappella marchionale (1491-1504), che segna il momento estremo del gotico piemontese.

Il meteo

Meteo Piemonte

Dal Rinascimento al Settecento: il ruolo di Torino capitale

Il vescovo di Torino Domenico della Rovere, affidando all'architetto Meo del Caprina da Settignano la riedificazione del Duomo della città (1491-98), aprì la strada a nuove esperienze legate al gusto rinascimentale (Brunelleschi, Alberti) che in Piemonte si mostrò assai articolato; è evidente, per esempio, l'adesione a proposte bramantesche sia nel S. Sebastiano di Biella (1504 metà XVI secolo) sia nella parrocchiale di Roccaverano (Asti), eseguita probabilmente su disegno dello stesso Bramante. Anche la scultura segnò, in apertura di Cinquecento, un drastico passaggio alla maniera rinascimentale; lo testimonia il monumento funebre di Galeazzo Cavassa (1518-23) dovuto a Matteo Sanmicheli (Saluzzo, Sala capitolare di S. Giovanni), che orientò tutta la scultura locale. Nelle stesse date è attivo ad Asti un pittore che conobbe buona fortuna anche nell'alessandrino: Gandolfino da Roreto; diverso, e circoscritto all'area torinese, fu invece il mercato figurativo legato a Defendente Ferrari che ebbe bottega a Chivasso. Attento all'area provenzale, ma nutrito anche di dati rinascimentali padani, la sua maniera si riconosce a partire dalle tavolette con Storie di S. Crispino e Crispiniano (ante 1507), ora reinserite intorno alla Madonna in trono del Duomo di Torino, fino al monumentale polittico della Natività e santi (1531, S. Antonio di Ranverso). Ma i risultati forse più interessanti del Cinquecento piemontese si coagularono intorno a Gaudenzio Ferrari, attivo tra Vercelli, Novara e la Valsesia. Partito da esperienze lombarde, ampliò i propri orizzonti con due soggiorni romani. Le sue prove migliori furono legate alla Valsesia (Storia della vita di Cristo, Varallo, S. Maria delle Grazie) e alla sua ampia partecipazione alla decorazione delle cappelle del Sacro Monte. L'insegnamento di Gaudenzio condizionò, in particolare a Vercelli, ogni possibile alternativa, come dimostra il corpus di cartoni conservati all'Accademia Albertina di Torino, che trasmisero il repertorio formale del maestro. Con il trasferimento della capitale sabauda da Chambéry a Torino (1563) la città andò assumendo nuova dignità e si aprì a contatti che determinarono la diffusione della cultura manierista romana. Nel 1605 giunse in città l'urbinate Federico Zuccari (già attivo a Caprarola per palazzo Farnese) chiamato a decorare la Grande Galleria voluta da Carlo Emanuele I che univa il Palazzo ducale al Castello (Palazzo Madama) e che un incendio distrusse nel 1659. La sua decorazione esercitò un forte influsso soprattutto in area cuneese: in palazzo Cravetta a Savigliano, alla certosa di Chiusa Pesio, al santuario di Vicoforte, iniziato su progetto di Vitozzi. La funzione di capitale assunta da Torino ne modificò anche la forma urbana, adeguandola al nuovo ruolo di centro del potere. Vitozzi aprì la "contrada nuova" (via Roma) che collegò il Palazzo ducale al Castello di Miraflores (oggi distrutto); quindi operarono Carlo di Castellamonte (piazza S. Carlo) e il figlio Amedeo, autore della facciata di Palazzo Reale (1646-58); ma già pochi anni dopo l'attività torinese di Guarino Guarini (1666-81) avviò un grande rinnovamento. Tra i suoi capolavori la Cappella della S. Sindone (1668-94) e la chiesa di S. Lorenzo (1668-80), ambedue a pianta centrale e realizzate con un audacissimo uso delle strutture, il Collegio dei nobili (ora Accademia delle Scienze) e Palazzo Carignano (1679 - 81). In questi ultimi edifici utilizzò il mattone a vista, suggestionando un'intera generazione di architetti che ne diffuse l'uso in tutta la regione, segnandone così il paesaggio. I primi decenni del Settecento furono caratterizzati dalla presenza di Filippo Juvarra, giunto a Torino a seguito del re Vittorio Amedeo II di ritorno dalla Sicilia. I suoi primi interventi furono la basilica di Superga, ancora legata a ricordi romani, e l'avvio dei lavori al castello di Rivoli (1715). Cinque anni dopo progettò, per Palazzo Reale, l'elegante e geniale Scala delle Forbici e, nel 1729, iniziò la costruzione della Palazzina di caccia di Stupinigi di cui curò anche la progettazione degli interni. Verso la metà del secolo si inserirono nell'ambiente piemontese notevoli presenze esterne legate ad acquisti di opere d'arte fatte dai ministri della real casa a Roma, Napoli e Venezia e all'arrivo a Torino di artisti quali il napoletano Francesco de Mura e il romano Gregorio Guglielmi; ma la presenza che determinò una svolta in campo pittorico fu quella di Bernardo Bellotto, a cui Carlo Emanuele III commissionò due vedute di Torino (ora alla Galleria Sabauda). Con l'arrivo di Lorenzo Pécheux, chiamato nel 1776 da Vittorio Amedeo III a dirigere l'accademia di pittura e scultura, la cultura piemontese si aggiornò su nuovi orientamenti neoclassici. Alla fine del secolo fu invece la pittura di paesaggio che segnò l'avvio verso nuove ricerche; particolarmente significative le opere di Giuseppe Pietro Bagetti, che rivestì il ruolo di "disegnatore di vedute" al seguito dell'esercito sabaudo, e di César van Loo, a cui guardarono i paesaggisti del primo Ottocento piemontese.

Dalla Restaurazione al Novecento

Dopo il breve periodo della dominazione francese e il ritorno del Piemonte ai Savoia (1814) la capitale vide nascere i grandi viali alberati in luogo della cinta muraria smantellata e grandi piazze (Vittorio, Carlo Felice, Statuto) come fulcro di ampliamenti urbanistici. Per celebrare il rientro della corte fu eretta, oltre il Po e di fronte a piazza Vittorio, la chiesa della Gran Madre di Dio, che segnò a Torino la fortuna del linguaggio neoclassico e che fu però solo una delle scelte della committenza sabauda, orientata anche verso un revival medievaleggiante che ben si adeguava agli ideali della Restaurazione (ristrutturazione neogotica delle residenze di Racconigi e di Pollenzo e degli edifici annessi). Il recupero del Medioevo si manifestò in effetti come una delle componenti del programma di legittimazione dinastica: in quest'ottica vanno visti i monumenti voluti per le più importanti piazze cittadine, come l'Emanuele Filiberto a cavallo di Carlo Marocchetti (1838, piazza S. Carlo) o il Conte Verde di Pelagio Palagi (1842, davanti a Palazzo di Città). Nella seconda metà del secolo, mentre l'Antonelli lanciava la sua sfida alle leggi della statica (S. Gaudenzio a Novara, 1841; Mole torinese, dal 1862) quasi presagendo l'imminente architettura in ferro, un gruppo di architetti (Alfredo D'Andrade, Vittorio Avondo, Edoardo Arborio Mella) puntò al restauro di antichi monumenti (castelli di Fénis e di Issogne, S. Andrea di Vercelli); emblematico di questa ripresa del passato fu il borgo medioevale progettato da D'Andrade per l'Esposizione italiana del 1884.

Il Novecento

Al termine della lunga e travagliata crisi legata al trasferimento della capitale si tenne a Torino, quasi a simbolo della ripresa economica, la grande Esposizione d'Arte decorativa moderna (1902) che sancì l'affermazione del Liberty. Suo assoluto protagonista fu l'architetto Raimondo d'Aronco (1857-1932), che ne progettò il padiglione principale. Questa esposizione fu lo stimolo per una serie di trasformazioni del gusto che interessarono anche la pittura e la scultura; ne sono esempi l'attività del casalese Leonardo Bistolfi (1859-1933), sperimentatore di un nuovo linguaggio plastico attento agli effetti luministici (evidente nei grandi modelli in gesso del Museo Civico di Casale), e il famoso Quarto Stato dell'alessandrino Pellizza da Volpedo (ora a Milano, Galleria d'Arte moderna) che cercò di adeguare l'esperienza postimpressionista a nuovi contenuti civili. La fortuna del Liberty ebbe tuttavia in Piemonte vita breve e quasi esclusivamente circoscritta all'ambiente borghese, poiché si scontrò con le esigenze della produzione industriale che, a partire dall'ultimo Ottocento, con le sue fabbriche collocate lungo le vie d'acqua per sfruttarne l'energia idrica e le prime abitazioni operaie, aveva cominciato a incidere fortemente sull'assetto urbano di alcune aree del Piemonte. A Torino, per esempio, nacque Borgo Dora, caratterizzato da edifici di estrema povertà sia per i materiali impegnati sia per le soluzioni architettoniche adottate. Il nesso fabbrica-quartiere operaio determinò la nascita dell'originalissima Borgata Leumann (1817-1906), sulla strada tra Torino e Rivoli, formata da 59 case e villini, in gran parte progettati da Pietro Fenoglio e segnati da un gusto tra il Liberty e l'eclettismo; gusto superato da Giacomo Mattè Trucco che, con lo stabilimento Fiat Lingotto (1915-23), di estrema razionalità, innovò drasticamente il modello ottocentesco di fabbrica. La reazione alla ridondanza del Liberty e alle bizzarrie dell'eclettismo manifestò tutta la sua portata all'Esposizione torinese del 1928 in cui si impose il razionalismo legato alla secessione viennese; i massimi esponenti di questo nuovo linguaggio furono Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini a cui si deve, tra l'altro, il Palazzo degli Uffici Gualino in corso Vittorio Emanuele II (1929-30). Intorno a Riccardo Gualino, vero e proprio mecenate, la cui collezione d'arte fu curata da Lionello Venturi, si coagulò un gruppo di intellettuali che innestò un processo di rinnovamento artistico e critico; figure di spicco furono, oltre a Venturi, Edoardo Persico e Felice Casorati che divenne, a partire dal 1923, punto di riferimento per i giovani artisti piemontesi: su posizioni alternative si costituì, nel 1928, il Gruppo dei Sei (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paolucci); eccentrico fu Luigi Spazzapan che, con il suo linguaggio spontaneo e immediato, arginò le ossessive costruzioni pittoriche di Casorati. Nel 1947 venne istituito il Premio Torino e intorno alla figura di Mastroianni si aggregò il rinnovamento in direzione postcubista. Intanto la città, legata a filo doppio alla Fiat, cresceva con questa, senza scelte programmatiche e urbanistiche. Questa crescita divenne esplosiva con l'ondata migratoria degli anni Cinquanta, quando nelle periferie Nord e Sud nacquero nuovi insediamenti operai separati dal resto della città: Falchera (1951), Vallette (1958), Mirafiori Sud (1961). Alternativo a queste scelte fu invece l'esperimento condotto a Ivrea dall'imprenditore Adriano Olivetti che si sostituì all'insufficiente intervento pubblico raccogliendo intorno a sé un gruppo di architetti (Luigi Figini, Gino Pollini, Ignazio Gardella, Ludovico Quaroni) che puntarono alla ricerca di un nuovo equilibrio tra fabbrica, insediamenti abitativi e paesaggio. Nel 1961 le celebrazioni per il centenario dell'Unità d'Italia lasciarono a Torino una serie di edifici, tra cui l'immenso Palazzo del Lavoro progettato da Pier Luigi Nervi e il Palazzo delle Mostre, con una particolare copertura 'a vela'. Negli stessi anni un gruppo di artisti torinesi che operava con materiali poveri e segni essenziali (la cui produzione venne definita nel 1967 da Germano Celant "arte povera") entrò con successo nel circuito internazionale collegandosi alla minimal art americana.

LE CITTÀ

Torino

(847.398 ab.). La città di Torino è situata al limitare della Pianura Padana, fra le Alpi e le colline del Po. La presenza dell'industria automobilistica e meccanica ha notevolmente influenzato l'economia della città favorendo lo sviluppo di numerose attività ad essa collegate (carrozzerie, fabbriche di accessori e parti di ricambio per auto, di pneumatici ecc.). Fra le altre industrie ricordiamo quelle metallurgiche, tessili, siderurgiche, chimiche, conciarie, calzaturiere, alimentari, dolciarie, enologiche (produzione di liquori e aperitivi), grafiche ed editoriali. Torino è anche un attivo centro commerciale.

STORIA.

La storia di Torino ha inizio nel III secolo a.C. quando lungo le rive del Po si insediarono le prime tribù "taurine", discendenti dalle fusioni di stirpi celto-liguri con popolazioni galliche migrate oltralpe alla ricerca di pianure coltivabili. Nel periodo dell'espansione romana nell'Italia settentrionale l'antico insediamento torinese fu teatro di guerre, riappacificazioni e alleanze con Roma, fino alla fondazione - per decisione di Giulio Cesare - di una vera e propria postazione militare. Presidio di confine e accampamento sotto Augusto, la città prese il nome di Augusta Taurinorum (29 - 28 A.C.). Porta principale delle Alpi occidentali, alla caduta dell'Impero romano, Torino fu poi assoggettata ai Goti, ai Longobardi e ai Franchi che vi stabilirono una Contea (VII sec. dopo Cristo). Seguì un lungo periodo in cui i Savoia si inserirono in un complesso gioco di forze che vide Impero, vescovi, feudatari e organismi del nascente Comune intrecciarsi e contrapporsi in un continuo alternarsi di lotte e alleanze, fino a quando Torino fu concessa in feudo ai Savoia dall'imperatore Federico II. Con l'unificazione amministrativa e politica di tutte le province sabaude all'inizio del XV secolo i Savoia assegnarono a Torino il ruolo di capitale. Nel 1536 fu la volta della dominazione francese ad opera di Francesco I. Trent'anni dopo il duca Emanuele Filiberto riottenne Torino per la casa di Savoia decidendo, per ragioni politiche, di trasferirvi la capitale del suo regno da Chambery. Nel 1620 Carlo Emanuele I diede avvio al primo ampliamento di Torino. Questa prima fase dello sviluppo portò a quel modello di città "ordinata" con strade e grandi corsi allineati divenuto poi la sua caratteristica principale. è questo il periodo più fecondo nella storia di Torino: una stagione di arte e cultura che abbraccia due interi secoli. Tra il Seicento e il Settecento la città assunse la fisionomia di una capitale rigorosa e austera che riservava il lusso e lo sfarzo all'interno degli edifici di governo e nobiliari. Allo scopo furono chiamati a corte architetti del calibro di Ascanio Vitozzi, Carlo e Amedeo di Castellamonte, Guarino Guarini e Filippo Juvarra, autorevoli firme dei capolavori del Barocco piemontese. Tre gli ampliamenti successivi della città (1620, 1673, 1674) - illustre esempio del razionalismo urbanistico sei-settecentesco - operati nell'intento di far coincidere la struttura romana con la definizione della capitale barocca dello stato sabaudo. Gli anni della dominazione francese diedero inizio nei primi anni del XIX secolo allo smantellamento della cinta fortificata che coincise con la fine del modello sabaudo di città, capitale dell'assolutismo. Grazie al suo centro storico, dove il tracciato viario, le strutture architettoniche e le lunghe teorie di portici danno spazio, forma e vita a piazze armoniose e accoglienti, la città conserva un'impronta di antica aristocrazia che non contrasta con il dilagante contorno delle moderne zone residenziali e della sua periferia industriale. La grande svolta si verifica subito dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia. Il periodo risorgimentale la porterà nel 1861 sino al 1864 ad essere capitale del Regno d'Italia. E a partire da questa data, Torino inizia a mostrare la sua crescente vocazione industriale. è in questo periodo che viene abbandonato il tradizionale assetto urbanistico: nella Torino che ancora ricalca l'impianto dell'antica colonia romana, viene introdotto il sistema a raggiera, con la creazione delle prime barriere operaie, fuori dalla cinta daziaria. All'inizio del ventesimo secolo - un'epoca storica che rappresenta una forte ripresa soprattutto dopo la perdita del primato politico di capitale - lo sviluppo sarà tumultuoso con la nascita della grande industria e la conseguente immigrazione dal Sud. Nel febbraio 2006 la città di Torino ha ospitato la XX edizione dei Giochi Olimpici Invernali.

ARTE.

Dell'antica colonia romana Torino ha conservato il caratteristico impianto a scacchiera del castrum augusteo che le conferisce un assetto urbanistico regolare con ampi viali e belle piazze d'importanza storica. Risalgono al periodo romano la Porta Palatina (I sec. d.C.), una delle quattro porte che si aprivano nella cerchia delle mura urbiche e le rovine del Teatro, distrutto nel corso delle invasioni barbariche. L'attuale volto della città deve molto all'opera di ricostruzione ed abbellimento iniziata dai principi di casa Savoia sin dal '500 e culminata nei piani architettonici e monumentali di Vittorio Amedeo II che incarica il messinese Filippo Juvarra di progettare un ulteriore ampliamento di Torino dopo i due secenteschi. Nascono tra il XVI e il XVIII sec. alcuni tra i più interessanti edifici cittadini: il Palazzo Reale (1660) con la celebre Scala delle Forbici (1720) dello Juvarra e imponenti sale (l'Armenia Reale ospita una ricca collezione di armi ed armature d'ogni epoca e Paese); Palazzo Madama, così chiamato in quanto residenza delle due madame reali Maria Cristina di Francia e Giovanna di Nemours e comprendente nella sua struttura parti romane e medievali successivamente modificate (XV-XVII sec.); Palazzo Carignano (in cui ha sede il Museo Nazionale del Risorgimento italiano, risalente al 1679-85 e considerato una delle maggiori creazioni dell'architetto Guarino Guarini, cui spetta anche il barocco Palazzo dell'Accademia delle Scienze (1678). Capolavoro del Guarini è la Cappella della S. Sindone nella Cattedrale edificata tra il 1668 e il 1694 per custodire la preziosa reliquia del lenzuolo in cui la tradizione vuole sia stato avvolto il corpo di Cristo deposto dalla Croce. Il sacello, che presenta pianta circolare ed è rivestito di marmi neri, rivela la genialità del suo costruttore nella soluzione originale della cupola, decorata all'esterno da un complesso intreccio di archetti e culminante in un'alta guglia. Lo stesso virtuosismo tecnico compare nella cupola della chiesa di San Lorenzo, altra creazione guariniana (1666-1679) che rivela, oltre a evidenti echi borrominiani, lontani ricordi di architetture arabe e gotiche. Numerose sono le chiese di Torino tra cui ricordiamo la già citata Cattedrale intitolata a S. Giovanni Battista ed unico esempio d'architettura rinascimentale della città (l'interno custodisce opere di D. Ferrari e F. M. Spanzotti); la chiesa del Carmine (1732-35) dello Juvarra; S. Cristina (1639) progettata da Carlo di Castellamonte, con facciata juvarriana; S. Domenico (1331), raro documento dell'età medievale, molto restaurata, con facciata in laterizio; S. Filippo (1675), la più grande chiesa torinese, portata a termine da Guarini e Juvarra (1717-34); S. Maria di Piazza (1751) di B. A. Vittone; Ss. Martiri (1577) di P. Tibaldi, dal sontuoso interno riccamente decorato; il Santuario della Consolata, antica costruzione, forse paleocristiana, modificata nell'Alto Medioevo e trasformata alla fine del Seicento su disegno del Guarini con l'aggiunta del santuario barocco (altare maggiore dello Juvarra). Un cenno a parte merita la famosa basilica di Superga, eretta negli anni 1717-31 dallo Juvarra per volontà di Vittorio Amedeo II, sull'alto di un colle dominante la città. L'architetto rivela il suo talento nell'originale rielaborazione di suggestioni classiche e rinascimentali particolarmente evidenti nella pianta centrale, nella snella cupola e nel pronao antistante l'ingresso. Lungo le rive del Po è da visitare il suggestivo Parco del Valentino con il castello, dalla chiara fisionomia francesizzante, costruito (1630-63) da Carlo e Amedeo di Castellamonte e il borgo medievale, realizzato, nell'ambito dell'Esposizione generale svoltasi a Torino nel 1884, per presentare al pubblico della mostra un campione quanto più fedele possibile all'originale dell'architettura piemontese del XV sec. Acquistato dal Comune, il complesso della rocca e del borgo ospitò in seguito una sezione dei musei civici. Altri interessanti monumenti dal punto di vista turistico sono inoltre la costruzione neoclassica della chiesa della Gran Madre di Dio (181831) di F. Bonsignore e la Mole Antonelliana quasi simbolo stesso della città, innalzata su progetto di Alessandro Antonelli a partire dal 1878. Alta 168 m, è costituita da una cupola a facce trapezoidali incurvate, poggianti su di un basamento a struttura metallica, e termina con un'ardita guglia telescopica, distrutta nel 1953 in seguito ad un nubifragio e fedelmente ricostruita. Torino vanta numerosi musei, alcuni di fama mondiale come il Museo Egizio, secondo solo a quello del Cairo, e altri specializzati nei settori cinematografico (Museo del Cinema, in Palazzo Chiablese) e automobilistico (Museo Nazionale dell'Automobile). Da non dimenticare la Galleria Civica d'Arte moderna, la Galleria Sabauda, con splendide opere di artisti toscani, veneti e fiamminghi, il Museo di Arte antica di Palazzo Madama (Ritratto virile, di Antonello da Messina e Libro d'Ore del duca di Berry, miniato da J. van Eyck), il Museo di Antichità, nel Palazzo dell'Accademia delle Scienze, notevole per le raccolte di materiali preistorici e protostorici romani, greci ed etruschi provenienti dal Piemonte e dalla Valle d'Aosta; la Galleria dell'Accademia Albertina (dipinti italiani e stranieri dal '400 al '700); Museo Nazionale d'Artiglieria nella Cittadella, fortificazione cinquecentesca di F. Paciotto.

LA PROVINCIA.

La Provincia di Torino (2.204.632 ab., 6.830 kmq) comprende un territorio montuoso e collinare delimitato ad Ovest dalle Alpi Cozie e Graie, dalla Serra di Ivrea a est e dalle colline del Po e del Monferrato. Il territorio è inoltre attraversato dal fiume Po e dai suoi affluenti alpini che convergono nella piana di Torino (Chisone, Dora Riparia ecc.). Caratteristica delle valli valdesi (Pellice, Chisone, Germanasca) sono le isole alloglotte e religiose, dove la popolazione è bilingue (francese e italiano) ed è di religione evangelico valdese. Nelle zone pianeggianti è diffusa l'agricoltura con produzione di ortaggi, legumi, cereali e foraggi ed è praticato l'allevamento dei bovini. Nelle zone collinari sono fiorenti l'orticoltura e la frutticoltura. Le industrie principali sono quelle metalmeccaniche, tessili, siderurgiche, meccanografiche, acciaierie, cotonifici, dei prodotti chimici e farmaceutici. Altra importante risorsa è il turismo praticato soprattutto nelle località attrezzate per gli sport invernali (Bardonecchia, Sestrière). Fra i centri principali ricordiamo Chieri, Chivasso, Collegno, Ivrea, Moncalieri, Pinerolo, Settimo Torinese, Venaria.

Panorama di Torino

Panorama di Torino

Luoghi di interesse

La Mole Antonelliana

Il progetto nasce nel 1862 ad opera dell'architetto Alessandro Antonelli con una costruzione a cupola alta 47 metri. Nel 1863 hanno inizio i lavori. L'estroso architetto di Ghemme Novarese aveva però nel frattempo già modificato il progetto portando l'altezza della costruzione a m 113; la Sinagoga torinese sarebbe diventata la più grande d'Italia e la più alta d'Europa. Dopo varie vicissitudini (derivate dall'arditezza del progetto e da motivi economici), la costruzione aveva raggiunto una notevole altezza (quasi il tempietto), ma qui, era il 1869, la Comunità ebraica accorgendosi che si andava troppo oltre il preventivo abbandonava il finanziamento. I lavori furono sospesi e fu applicato alla Mole un tetto provvisorio. L'Antonelli era però deciso a terminare la sua esaltante opera e riuscì a convincere nel 1873 la città di Torino a rilevare il cantiere dedicando l'edificio al re Vittorio Emanuele II. Dopo varie peripezie e proposte, l'Antonelli, sostenendo che così come era stata progettata non era degna di tale personaggio convince il Consiglio comunale di Torino ad approvare le modifiche che porteranno la costruzione prima a 146 m, poi a 153 m e infine, a 167 m definitivi, prevedendo di fissare sulla punta della guglia un genio alato alto parecchi metri. Con queste ultime decisioni però incominciano la maggioranza dei guai tecnici della Mole; le strutture che erano state dimensionate con grande attenzione per il primitivo progetto diventano insufficienti; l'Antonelli cercava e sceglieva personalmente i materiali per garantire qualità e resistenza ma purtroppo la tecnologia edile del tempo non era all'altezza di questo sogno verticale. Si ebbero problemi di sovraccarico delle fondazioni e deformazioni della struttura; nell'insieme però la costruzione reggeva bene grazie alle originali intuizioni nel progetto, con l'inserimento di catene di contenimento e all'uso di materiale con concetto ultramoderno, ottenendo resistenze incredibili con pesi molto ridotti, basti pensare che il guscio che forma la cupola, impostata su un quadrato di circa 30 m di lato e alto circa 50 m, è formato da due muri distanti meno di due metri e spessi 12 cm tenuti insieme da tiranti in ferro e da un intreccio di setti e di archi in mattoni; qui passano pure le rampe di scale a zig-zag per l'accesso di servizio alla guglia. Nel 1889 la guglia è arrivata alla fine del suo acrobatico percorso e nell'aprile del 1899 viene issato sulla punta il genio alato dorato. La fabbrica della Mole era durata 26 anni. Ma il suo completamento si protrasse ancora per parecchi anni sotto la guida del figlio dell'Antonelli, Costanzo; poi, fra il 1905 e il 1908 l'architetto Annibale Rigotti eseguì le decorazioni all'interno. La struttura riproponeva però in modo indilazionabile i suoi problemi e si doveva perciò correre ai ripari per garantirne la sicurezza. Furono interpellati i migliori professionisti del tempo, alla fine prevalse una scelta di sicurezza inserendo delle strutture in cemento armato all'interno della cupola che sicuramente avrebbero fatto inorridire l'Antonelli. Nel 1961 la Mole aveva riacquistato l'altezza originaria di 167 m, conseguita però con una struttura metallica rivestita di pietra. I lavori della ristrutturazione della Mole sono terminati nel 1987 e con questi essa ha riacquistato vitalità come sede di mostre e avvenimenti culturali. Un ascensore panoramico, in vetro e acciaio sorretto da sole funi metalliche, porta dalla base all'altezza del tempietto, da dove, particolarmente nelle giornate con cielo terso, si gode un magnifico panorama su Torino, sulle sue colline e sulle Alpi.

La Mole Antonelliana a Torino

La Mole Antonelliana a Torino

Teatro Regio

La decisione di costruire un vero e grande teatro d'opera a Torino, a imitazione delle altre capitali dell'epoca, fu presa nel 1713 quando il ducato di Savoia si trasformò in Regno di Piemonte, sancito dal Trattato di Utrecht e sotto la guida di Vittorio Amedeo II; dovettero però passare ancora parecchi anni prima che l'idea del teatro prendesse corpo e solamente nel 1738, il successore Carlo Emanuele III diede inizio ai lavori. Precedentemente (dal 1678) la sua funzione era svolta in parte dalla Sala del Teatro Ducale detta di S. Giovanni. Progettato da Filippo Juvarra e inserito nel complesso delle Segreterie, il nuovo teatro fu realizzato da Benedetto Alfieri. I lavori incominciarono nel 1738 e proseguirono con tale rapidità che il 26 dicembre 1740 il teatro fu inaugurato con l'opera Arsace di Francesco Feo su libretto di Pietro Metastasio. Nato quarant'anni prima della Scala, il Regio vanta centinaia di prime rappresentazioni fra le quali si annoverano Manon Lescaut e La Bohème di Giacomo Puccini, Salomé di Richard Strauss e la falsa prima scaligera di Giselle avvenuta invece a Torino il 26 dicembre 1842. Il nuovo teatro poteva contenere 2.500 spettatori e la sua sala era considerata la più grandiosa d'Europa. I più grandi nomi del bel canto e del balletto passarono sulla scena del Regio confermando la sua gloriosa tradizione. Nel 1798, durante l'occupazione francese di Torino il teatro prese il nome di National, nel 1801 diventò Grand Théatre des Arts e nel 1804 prese la denominazione di Théatre Impérial, nome che mantenne fino al 1814. Con la caduta di Napoleone e il ritorno dei Savoia sul trono di Torino si ritornò anche al Regio Teatro. Nel 1838 Pelagio Pelagi apportò una serie di modifiche alle strutture. Nel 1905 Ferdinando Cocito intervenne con notevoli lavori di trasformazione della sala e del palcoscenico; nel 1924 si ebbe l'introduzione del cemento armato nella torre di scena a cura di Giacomo Mattè-Trucco, il geniale progettista della Fiat Lingotto. Dall'inizio del secolo il Regio divenne il tempio della musica di Wagner e di Strauss e al tempo stesso uno dei teatri più aperti alla nuova opera francese e alla giovane scuola verista italiana. La notte tra l'8 ed il 9 febbraio 1936 segna un evento drammatico nella vita culturale e musicale torinese; un furioso incendio distrugge la sala e il palcoscenico del Teatro Regio. I bombardamenti del 1952 e '43, durante la seconda guerra mondiale completano la rovina; solo nel 1966, dopo alterne vicissitudini viene affidato il progetto per la ricostruzione all'architetto Carlo Mollino e all'ingegnere Marcello Zavelani-Rossi. Il nuovo Teatro Regio, ricostruito nello stesso luogo del precedente in piazza Castello, anche se con diversa dislocazione, rimane armoniosamente inserito nel contesto architettonico dell'antica piazza. è stato ufficialmente inaugurato la sera del 10 aprile 1973 con l'opera I Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi. Una grande e artistica cancellata scorrevole in bronzo, opera di Umberto Mastroianni a titolo Odissea Musicale, chiude l'atrio d'ingresso principale. Il nuovo complesso teatrale è stato concepito e realizzato con le più moderne tecnologie e abbandonando la funzione esclusiva di sala da spettacoli, assume il più vasto ruolo di centro propulsore della vita culturale e artistica di Torino e del Piemonte. Il Teatro Regio a oltre un quarto di millennio dalla sua fondazione continua ad essere, con la sua attività, testimone della storia e degli eventi di Torino, dell'Italia e dell'Europa.

Palazzo Madama

Circa duemila anni fa, all'epoca dell'Impero romano, Palazzo Madama era una delle porte d'ingresso alla città in corrispondenza del decumano massimo che oggi è via Garibaldi. Due alte torri, quelle che tuttora affiorano sul lato della piazza pedonale, incorniciavano quattro grandi aperture ad arco: l'entrata e l'uscita da Torino (Augusta Taurinorum) verso Est, verso Roma. Nel Medioevo, la porta romana subisce la sua prima radicale metamorfosi. Da soglia alla città diviene difesa della città: vengono chiusi gli archi romani, aperto un nuovo passaggio, accanto alla torre meridionale, la porta Fibellona, e, soprattutto, eretto un fortilizio a ridosso delle torri. Nei primi decenni del 1300 la struttura fortificata si trasforma in un castello per mano di Filippo I d'Acaja, del ramo cadetto dei Savoia. Ma è solo con Ludovico d'Acaja, all'inizio del Quattrocento, che il castello assume l'aspetto che ora coincide con uno dei due volti di Palazzo Madama: quattro torri angolari, scale di collegamento tra i vari piani e, all'interno, una corte circondata da portico. In seguito, il suo ruolo varierà, pur rimanendo centrale: dimora per ospiti di rango, scenario per le cerimonie pubbliche, spazio scenografico per le feste. Il 1637 è un anno importante per la storia del palazzo. Maria Cristina di Francia, reggente del ducato in nome del figlio minorenne Carlo Emanuele II, infatti, elegge il castello a sua residenza, iniziando un ammodernamento che porta, tra l'altro, alla copertura della corte medioevale interna. Ma è Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, vedova di Carlo Emanuele II, l'artefice della nuova immagine di quello che è ormai diventato Palazzo Madama, soprannome della residenza ufficiale delle madame reali. è lei, infatti, che affida all'architetto Filippo Juvarra il progetto del grandioso avancorpo (completato nel 1721) che è l'altro dei due volti dell'attuale Palazzo Madama: una tra le più significative realizzazioni del Barocco europeo. Chiara, luminosa, trasparente, in dialogo con la linea retta di via Garibaldi, la facciata juvarriana, all'esterno, racconta la potenza, con un basamento a pilastri bugnati, un ordine superiore gigante, scandito da colonne e lesene, entro cui si aprono grandi finestre e una balaustra marmorea con rilievi, statue e vasi. All'interno, invece, incarna con soavità inedita la leggerezza: quattro agili colonne centrali nell'atrio sembrano ancorare a terra le volte su cui poggia la scala monumentale, invasa dalla luce che penetra da tre lati. Il progetto di Juvarra era molto più ambizioso, ma non fu mai completato e quello che rimane è il capolavoro dell'avancorpo: una sorta di maschera barocca, davanti al possente edificio medioevale, che non nasconde, ma amplifica la visione, dall'interno verso l'esterno, dall'esterno verso l'interno. Così, Palazzo Madama aggiunge definitivamente al complesso di segni che racchiude (porta, passaggio, difesa, dimora) anche quello di una nuova immagine del potere: un potere esibito e centrale, nel cuore della città. Per questo, nel 1799, in epoca di dominazione francese, il generale Barthélemy-Catherine Joubert non può che insediare qui, simbolicamente, la sede del governo provvisorio. Ma da quando il palazzo comincia a perdere la sua funzione di dimora, perde anche la sua unità, subendo modificazioni disarmoniche degli ambienti: prigione, sede del commissariato di polizia, di uffici amministrativi, degli alloggi degli impiegati e delle loro famiglie. Sarà il re Carlo Alberto a riqualificare le sorti dell'edificio, destinandolo, nel 1832, a sede della Regia Pinacoteca. è questa la prima volta che il palazzo ospita un museo. Ma i simboli continuano a stratificarsi e nel palazzo, con Carlo Alberto, entra anche la politica: nel 1848, il re colloca nel grande salone al primo piano il Senato Subalpino, destinato a divenire uno dei luoghi della politica in cui più fortemente si è prefigurata l'Unità d'Italia. Più tardi, nel 1869, il palazzo accoglie un altro importante organo istituzionale: la Corte di Cassazione. In questa epoca inizia i suoi studi Alfredo D'Andrade che dà il via, nel 1883, ad imponenti scavi archeologici ricostruendo la storia bimillenaria dell'edificio: le mura medioevali esterne, le arcate della corte, i resti della porta romana e del lastricato che la attraversava. Quando nel 1934 Palazzo Madama diviene la sede del Museo Civico d'Arte antica, sono già state ripristinate le merlature, il tetto e i cammini di ronda. Nel 1988 il palazzo è stato chiuso. Un complesso lavoro di adeguamento dei locali e rifacimento degli impianti tecnologici ha caratterizzato i lavori di restauro. Il 2 giugno 2001 Palazzo Madama, edificio simbolo dei due millenni di storia della città di Torino, ha riaperto parzialmente le sue porte; la fine dei lavori è prevista per l'inverno 2006-07.

Basilica di Superga

I principi Vittorio Amedeo II di Savoia ed il viennese Eugenio di Savoia, saliti sull'alto colle il 2 settembre 1706, per osservare le posizioni dell'esercito franco-spagnolo che da 4 mesi circa assediava la città, fecero, da questo luogo, voto alla Madonna delle Grazie per la liberazione di Torino, promettendo di fare costruire, sullo stesso colle, un grandioso tempio in caso di vittoria sui Francesi. Tale voto avvenne di fronte alla statua lignea della Madonna ora conservata nella relativa cappella riproducente quella demolita per l'erezione della basilica. L'episodio è ricordato anche in un affresco e un quadro nella chiesa di S. Cristina in piazza S. Carlo a Torino. Dopo un immane lavoro di sbancamento per quei tempi, per l'abbassamento della sommità del colle di oltre 40 m onde avere così un'ampia spianata per consentire l'impianto del tempio, alla quota di 670 m, il 20 luglio 1717 veniva iniziata su progetto del grande architetto Filippo Juvarra la costruzione della "fabbrica" della basilica e il 5 novembre 1731, 14 anni dopo, seppure incompleta, era inaugurata dal Carlo Emanuele III. La "fabbrica" del complesso venne orientata sull'asse della "stradone" o contrada di Francia. La pianta della basilica è circolare, anteriormente avanza con un imponente pronao sorretto da 8 colonne corinzie cui si accede da una solenne scalinata. L'altezza della basilica dal suolo alla punta della croce è di 75 m. La lunghezza interna è di 51 m, mentre la larghezza è di 34 m; l'interno ha ricche cappelle con stucchi, marmi, pregevoli sculture e quadri. Notevole è il bassorilievo di Bernardino Cametti (1633) sull'altare maggiore riproducente il beato Amedeo di Savoia e la battaglia di Torino del 1706. L'alta cupola domina il paesaggio circostante tra i due campanili (alti 60 m) ispirati dal Borromini. Una scala a chiocciola interna alla basilica conduce i visitatori sulla balconata esterna del tamburo della cupola, dove si ha una vista panoramica. Interessante lungo il chiostro interno la Sala dei Papi con i quadri raffiguranti tutti i pontefici. I sotterranei della Basilica custodiscono uno storico e artistico mausoleo nel quale sono raccolte le tombe dei sovrani sabaudi da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto (tranne Carlo Felice sepolto nell'abbazia di Altacomba) e di altri 50 fra principi e principesse, cioè tutti quelli deceduti dopo il 1732.

Il Lingotto

Negli anni Venti, quando fu progettato e costruito dall'architetto Giacomo Mattè Trucco, lo stabilimento del Lingotto della Fiat era un esempio modernissimo di architettura industriale, capace di coniugare i modelli di sviluppo delle grandi case automobilistiche nordamericane, con le esigenze e le tendenze dell'architettura contemporanea. Con le sue misure grandiose era il simbolo delle aspirazioni alla modernità dell'Italia dell'epoca: i due corpi longitudinali raggiungevano i 507 metri di lunghezza e i 24 metri di larghezza ed erano uniti da 5 corpi trasversali; la larghezza complessiva era di 80 metri, i piani delle officine erano cinque; l'ispirazione, dichiaratissima, erano le catene di montaggio della Ford. I criteri costruttivi erano d'avanguardia. Nel 1925, due anni dopo l'inaugurazione dello stabilimento, avvenuta alla presenza del re Vittorio Emanuele III, l'architetto svizzero Le Corbusier, uno dei maestri dell'architettura del Novecento, definì il Lingotto "un documento per l'urbanistica". Nei decenni successivi, al centro dell'omonimo quartiere che si stava trasformando a sua misura, lo stabilimento del Lingotto produsse alcune delle prime vetture entrate nell'immaginario italiano: la Torpedo, la Balilla e la mitica Topolino. Nella sua storia sessantennale vide uscire dalle proprie officine più di 80 modelli di auto. Poi, nel 1982, la Fiat annunciò la sua chiusura. Nel frattempo la casa automobilistica torinese aveva aperto altri stabilimenti, sia in Italia che all'estero, ed erano Mirafiori e Rivalta, più che il Lingotto, a tracciare la strada e i modelli delle sfide al nuovo secolo e alla sua globalizzazione. La fabbrica dismessa fu un emblema di quell'archeologia industriale che iniziava a caratterizzare tante, troppe città europee. Le sue misure grandiose, che negli anni Venti avevano affascinato e colpito i contemporanei, erano una difficoltà ulteriore al suo recupero. Nel 1983 venne indetto un concorso internazionale per stabilire cosa fare dello stabilimento. Parteciparono i nomi più prestigiosi dell'architettura internazionale, vinse il genovese Renzo Piano, che negli anni Settanta aveva conquistato la celebrità internazionale con il progetto del Beaubourg, a Parigi. La proposta di Piano per il Lingotto è affascinante, coerente con il ruolo che il Lingotto aveva avuto sin dalla sua inaugurazione, e con il futuro che aspetta Torino. Come negli anni Venti lo stabilimento aveva indicato la direzione della città verso lo sviluppo industriale, così negli anni Novanta diventa simbolo del terziario avanzato, della sfida verso il futuro. Nei grandi spazi industriali vengono ricavati un Centro Congressi, un Centro Esposizioni, un Auditorium, un grande Hotel, un Centro Servizi, Uffici Direzionali, un'area per lo shopping. All'esterno le grandi finestre e il ritmo dei pilastri che avevano caratterizzato lo stabilimento industriale rimangono uguali, come se niente fosse cambiato, ma all'interno le moderne tecnologie e le esigenze di un centro polifunzionale dalle grandi ambizioni sono le vere protagoniste: l'Auditorium ha una volumetria plasmabile, modificabile in funzione delle esigenze del contesto. Il Centro Esposizioni diventa in pochi anni uno dei più importanti di Italia: ospita la Fiera del Libro, il Salone del Gusto, il Salone dell'Auto. L'hotel Le Meridien, uno dei più eleganti della città, gioca intelligentemente con il passato dell'antico stabilimento; le vetrate delle finestre ad altezza di piano, elementi distintivi dell'antica fabbrica del Lingotto, sono rimaste inalterate, le sale interne portano nomi che riecheggiano le antiche officine: Sala Presse, Rampa, Fonderia... All'interno dell'hotel, in uno dei cortili dello stabilimento, una delle sorprese volute da Renzo Piano: il magnifico giardino tropicale. Così rigoglioso ed esuberante e così incredibilmente verde, con le sue piante provenienti da terre lontane, nel cuore di una Torino dall'inverno continentale. Al Giardino Tropicale si può arrivare anche attraverso i Portici, la lunga via dedicata allo shopping che unisce l'hotel al Centro Congressi; nella stessa zona trovano posto gli uffici direzionali di numerose aziende. E in questa zona, sopra la mitica pista di collaudo, c'è l'altra creazione di Renzo Piano, diventata il simbolo del nuovo Lingotto. è la "bolla", una esclusiva sala riunioni costruita in cristallo e acciaio che permette agli assistenti alle riunioni di godere di un panorama privilegiato e sontuoso: la corona delle Alpi e della collina di Torino tutt'intorno. La bolla ha una doppia funzione: il suo design e le tecniche costruttive fanno pensare alle spinte verso il futuro, la sua forma, semplice e naturale, è estremamente tranquillizzante.

Il Complesso del Valentino

Parco del Valentino

Realizzato a metà Ottocento su progetto di Jean-Pierre Barillet-Deschamp, è uno dei primi parchi urbani italiani, vero polmone verde di Torino, con un'estensione di 550.000 mq dal Ponte Umberto I al Ponte Isabella. All'interno dell'area si trovano il Castello del Valentino, l'Orto botanico, il borgo medioevale e il Palazzo Torino Esposizioni. Lungo la sponda del Po corre una pista ciclabile e si trova uno degli imbarcaderi per le gite sul fiume.

Castello del Valentino

Costruito a partire dal XVI secolo, venne trasformato e ampliato, per volontà di Cristina di Francia, moglie di Vittorio Amedeo I, da Carlo e Amedeo di Castellamonte (1620-60): al gusto francese della madama reale si devono i tetti a falde inclinate. L'originario carattere di villa fluviale con affaccio sul Po fu in seguito alterato dallo sviluppo del fronte verso la città, con grande cortile d'onore chiuso su tre lati: in particolare furono rimaneggiati nel secolo XIX i due corpi laterali perpendicolari alla facciata, dotata di portico con loggia soprastante e affiancata da due torri quadrilatere. Decaduta a partire dalla morte di Cristina di Francia, la residenza ebbe successive destinazioni d'uso: scuola di veterinaria nel periodo francese, caserma nel 1824, scuola di applicazione per gli Ingegneri dal 1859, infine sede della facoltà di Architettura del Politecnico. è in corso un restauro complessivo. Le stanze al piano nobile conservano importanti decorazioni seicentesche ad affresco e a stucco dorato o bianco. A una prima fase decorativa (1633-38, 1642), affidata a Isidoro Bianchi e ai figli Pompeo e Francesco, sono da riferire il salone centrale e le stanze alla sua destra, costituenti l'appartamento di Moncalieri. Nel salone centrale le storie dinastiche filofrancesi dei duchi di Savoia sono un omaggio alla madama reale. La stanza Verde presenta sul soffitto il Ratto di Europa e apoteosi del toro e negli scomparti episodi mitologici. Seguono la stanza delle Rose, la stanza dello Zodiaco, con stucchi raffiguranti i segni dello Zodiaco e le Costellazioni, la stanza del Valentino o della Nascita dei fiori, con al centro del soffitto Flora, le Muse e il centauro Chirone cui Apollo in volo affida il Castello del Valentino, il piccolo Gabinetto dei fiori e la stanza dei Gigli, con ricchi stucchi e fregio con putti recanti gigli. A sinistra del salone centrale si sviluppa l'appartamento di Torino, la cui decorazione a stucco bianco spetta ad Alessandro Casella (1646-49), mentre gli affreschi furono affidati a Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi (1662). Si susseguono la Stanza della Guerra, i cui affreschi raffigurano episodi con eserciti e artiglierie nel fregio, la stanza delle Udienze o del Negozio, la stanza delle Magnificenze, con vedute torinesi e paesaggi affrescati nel fregio, la stanza della Caccia, con al centro del soffitto Diana cacciatrice e le ninfe, l'annesso Gabinetto delle Fatiche di Ercole e la stanza delle Feste.

Borgo Medioevale

Sulla sponda del Po, costituisce un'attrattiva turistica del parco del Valentino. Costruito in occasione dell'Esposizione generale italiana del 1884, fu ideato da Alfredo D'Andrade, coadiuvato da un gruppo di artisti, storici e letterati. Il borgo riproduce una serie di tipologie medioevali, prendendo a modello i più noti edifici esistenti in Piemonte e in Valle d'Aosta; anche l'attività delle botteghe artigiane contribuisce a ricreare l'atmosfera del tempo. Vi si accede da Nord, passato il ponte levatoio, dalle porte della Torre di Oglianico; a sinistra è l'Albergo dei Pellegrini, davanti al quale sono una fontana e il forno. Lungo la strada si dispongono due case, imitazione di analoghe di Bussoleno, la Porta di Rivoli, la Casa di Alba, la Casa di Frossasco, la Torre d'Alba e la Casa di Cuorgnè. La chiesa si ispira a quelle di Verzuolo e Ciriè; la strada continua con le Case di Avigliana e di Chieri, il cortile di Avigliana, su cui si affacciano le case di Borgofranco d'Ivrea e di Malgrà, la Torre di Avigliana, le Case di Avigliana e di Pinerolo. Dopo le due Case di Mondovì è uno spiazzo dove è stata collocata nel 1927 la Fontana d'Issogne; lo chiudono l'Osteria di S. Giorgio (1927) e la Casa di Ozegna, con discesa verso il Po. Una salita con porticato, dove sono collocate alcune macchine da guerra medioevali, conduce al castello, con ponte smontabile. L'ingresso riproduce quello del Castello di Fénis; dall'atrio si passa nel cortile, con il corpo di guardia del Castello di Verrès; si accede quindi alla dispensa, alla cucina e alla sala da pranzo. Al piano superiore sono la sala baronale, con il ciclo pittorico dei prodi e delle eroine e della fontana della giovinezza del castello di Manta, la camera nuziale e la cappella.

Piazza Castello

La grande piazza quadrangolare è da sempre il fulcro storico e politico della città, per le vicende di cui fu teatro e per gli ampliamenti urbanistici che da qui partirono, con l'apertura delle odierne via Roma, via Po e via Pietro Micca. L'attuale aspetto di piazza Castello è frutto degli interventi degli architetti Ascanio Vitozzi (1587), che sistemò l'ala occidentale con edifici a portici, Amedeo di Castellamonte e Filippo Juvarra. Ospita al suo centro Palazzo Madama, il castello medioevale ricavato dalle vecchie porte romane e ristrutturato con l'aggiunta della imponente facciata settecentesca dello Juvarra. Vi si affacciano oltre ad importanti punti commerciali e amministrativi: il Palazzo Reale, il Teatro Regio, il Palazzo della Giunta Regionale, della Prefettura, delle Segreterie, l'Armeria e la Biblioteca Reale (contenente opere di Leonardo da Vinci) e in piazzetta Mollino, l'Archivio di Stato.

Torino: piazza San Carlo

Torino: piazza San Carlo

Palazzo Reale

Iniziato nel 1646 dalla madama reale Cristina di Francia per sostituire il vecchio Palazzo del Vescovo, conserva intatta la facciata di Carlo Morello (1658). L'edificio, a pianta quadrata, con cortile interno, fu residenza dei re di Sardegna fino al 1859 e di Vittorio Emanuele II, re d'Italia, fino al 1865. Le decorazioni e gli arredi interni testimoniano il succedersi dei numerosi artisti che vi lavorarono dal XVII al XIX secolo. Salendo il monumentale scalone di Domenico Ferri, 1864-65, ornato da dipinti e statue ottocenteschi, con l'eccezione del monumento a Vittorio Amedeo I (Andrea Rivalta, 1619), si giunge al primo piano, dove ha inizio la visita. Nell'ampio salone degli Svizzeri, con fregio dei fratelli Antonio e Gian Francesco Fea (1558-1661) raffigurante i Fasti della stirpe sassone di Vitichindo, da cui discenderebbe casa Savoia, tela del soffitto di Carlo Bellosio (1842) e grande Emanuele Filiberto alla battaglia di San Quintino (1557) di Palma il Giovane, si dipartono la Galleria della Sacra Sindone, con accesso alla cappella, la Galleria delle Battaglie, la Scala delle Forbici, geniale creazione di Filippo Juvarra (1720) e la sequenza delle sale di rappresentanza. La prima è la Sala dei Corazzieri o delle Dignità, dove sono appesi due arazzi con Elementi, della manifattura di Beauvais (1695 c.). Seguono la Sala degli Staffieri o delle Virtù, rappresentate nel fregio e nella tela di Charles- Claude Dauphin al centro del soffitto intagliato e dorato, mentre alle pareti spiccano gli arazzi della serie di Don Chisciotte della manifattura di Gobelins (1746-47); la Sala dei Paggi o delle Vittorie, con tele e decorazioni del secolo XVII. Si passa nella sfarzosa Sala del Trono, con intagli dorati di epoche diverse, Allegoria della Pace (1662) di Jan Miel nella volta e bel pavimento intarsiato (Gabriele Capello, 1843). La Sala delle Udienze e quella del Consiglio conservano i soffitti seicenteschi, mentre gli arredi e le decorazioni si devono all'intervento di Pelagio Palagi, diretto da Carlo Alberto. Notevole il Gabinetto cinese, rivestito di lacche originali su progetto di Juvarra, con affresco di Claudio Francesco Beaumont (Giudizio di Paride, 1737). Passata la camera da letto di Carlo Alberto, con pala di Defendente Ferrari e il pregadio di Carlo Alberto, con preziosi intarsi di Luigi Prinotto (1732) e Pietro Piffetti, si giunge nella Sala della Colazione, con soffitto e fregio seicenteschi e bel parafuoco intagliato da Giuseppe Maria Bonzanigo, sulla quale si apre l'alcova ottagonale. La Galleria del Daniel, con la quale Carlo Emanuele Lanfranchi completò, sotto Vittorio Amedeo II, l'ala di levante, prende il nome da Daniel Seyter, che dipinse nella volta l'Apoteosi di Vittorio Amedeo II (1688-92). Seguono le stanze dell'appartamento della regina: la camera da letto, con soffitto del Seyter, la camera di Lavoro, il Gabinetto di toeletta, con due mobili del Piffetti (1731?33), il pregadio, la Sala delle Cameriste, la stanza della Macchina (dove arrivava un ascensore azionato a mano riservato alla regina) e la cappella privata della regina, decorata su disegno di Benedetto Alfieri (1739). Dal Gabinetto delle miniature, così detto dalla collezione di personaggi sabaudi miniati (secoli XVIII-XIX), si passa nella sala da pranzo, con arazzi della manifattura torinese, e nella Sala del Caffè, decorata su disegno di Lanfranchi (1685?90). Nella fastosa camera dell'Alcova, che conserva gli intagli dorati seicenteschi, è collocata una parte della collezione di Carlo Alberto di vasi giapponesi e cinesi (1750?1850). Seguono la sala del trono della regina, con ovali in marmo (1739) e nella volta Trionfo delle Grazie (secolo XVII), e la sala da ballo, con colonne di marmo bianco, realizzata, unendo due sale, dal Palagi, cui spetta l'Olimpo del soffitto. Al secondo piano sono altri appartamenti dei duchi di Savoia e dei duchi d'Aosta, con decorazioni e arredi dei secoli XVIII-XIX visibili in occasioni particolari. Al piano terreno è stato aperto al pubblico l'appartamento di madama Felicita, sorella di Vittorio Amedeo III, che vi abitò dal 1788.

Cattedrale

Dedicata a S. Giovanni Battista, patrono di Torino, è l'unico esempio di architettura rinascimentale della città. Venne innalzata nel 1491-98 per volontà del cardinale Domenico della Rovere, su progetto dell'architetto toscano Meo del Caprina. La facciata è in marmo bianco, con timpano e tre portali decorati da rilievi di Meo del Caprina e compagni, con battenti lignei di Carlo Maria Ugliengo (1712); dietro si profilano la modesta cupola ottagonale del Duomo e quella svettante della Cappella della Sacra Sindone. L'interno è a croce latina, a tre navate; nella controfacciata a destra entrando in una nicchia è la bella tomba di Anna de Crequy di scultore francese (metà secolo XVI), con cinque "pleurantes", mentre a sinistra sono alcune lastre tombali e il dipinto di Antonino Parentani raffigurante Angeli e santi patroni di Torino (1602). Nella prima cappella destra statua in terracotta della Madonna Grande (1460-70), nella seconda destra, dei Ss. Crispino e Crispiniano, polittico della Compagnia dei Calzolai di Giovanni Martino Spanzotti e Defendente Ferrari (1498-1504) e alle pareti le diciotto storie dei santi titolari, già nelle ante di chiusura del polittico. Nella terza cappella destra, pala di Bartolomeo Caravoglia (1655) e nella sesta affreschi con Miracoli e martirio dei Ss. Cosma e Damiano di Giovanni Andrea Casella (1660). Nel braccio destro del transetto è la cinquecentesca Cappella del Crocifisso, con altare di Ignazio e Filippo Collino (1787), ornato dal Crocifisso di Francesco Borello e da statue lignee di Stefano Maria Clemente; le statue marmoree di S. Cristina e S. Teresa di Pierre Legros (1715) provengono dalla chiesa di S. Cristina. Attraverso un portale ottocentesco si accede alla sagrestia, dove sono alcuni dipinti di scuola piemontese del XV secolo (Battesimo di Cristo di Spanzotti e Ferrari, 1508-11). Nel presbiterio sono degni di nota gli stalli del coro intagliati da Giuseppe Stroppiana (1742-44). Nel braccio sinistro del transetto è la tribuna reale scolpita da Ignazio Perucca (1775). Nella navata sinistra si segnalano nella quinta e nella quarta cappella i dipinti del Caravoglia e nella seconda la pala di Charles- Claude Dauphin Comunione mistica di S. Onorato. Due alti portali (14-15 m) ai lati del presbiterio danno l'accesso alle scalinate in marmo nero che salgono alla Cappella della Sacra Sindone, geniale opera di Guarino Guarini, iniziata nel 1668 e portata a termine nel 1694, dopo la sua morte. Di pianta circolare e rivestita di marmi neri, culmina nella luminosa cupola conica, tra le più alte creazioni barocche, a sei ordini di archi sovrapposti, con un traforo a stella nella parte terminale. Lungo le pareti spiccano i monumenti funebri innalzati da Carlo Alberto a quattro suoi antenati, mentre al centro della cappella è collocato il ricco altare di Antonio Bertola (1694), contenente la teca d'argento che racchiude la Sacra Sindone. La preziosa reliquia, che si ritiene il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo nel sepolcro, dopo vari passaggi divenne proprietà dei Savoia, che la custodirono a Chambéry fino al trasferimento della capitale del ducato a Torino.

Piazza S. Carloo

La più bella di Torino, già piazza d'arme e del mercato, conserva l'aspetto seicentesco di armoniosa uniformità conferitole dall'architetto regio Carlo di Castellamonte (1642-50). Al centro si erge il monumento equestre di Emanuele Filiberto, rappresentato da Carlo Marocchetti (1838) nell'atto di ringuainare la spada dopo la battaglia di San Quintino del 1557, una delle statue più significative del primo Ottocento. Il lato corto della piazza a Sud-Ovest è delimitato dalle facciate quasi gemelle delle chiese di S. Cristina e di S. Carlo. Numerosi palazzi nobiliari si affacciano su piazza S. Carlo, tra i quali va segnalato il Palazzo Solaro del Borgo, già Isnardi di Caraglio, dal 1839 sede dell'Accademia Filarmonica cui si è unito nel 1947 il Circolo del Whist. Parzialmente ricostruito nel '700 da Benedetto Alfieri e poi da Giovanni Battista Borra, conserva la magnifica decorazione settecentesca delle sale; il Salone per i concerti spetta a Giuseppe Maria Talucchi (1839-40). Degni di una sosta sono i tradizionali caffè S. Carlo, inaugurato nel 1842, e Torino e la pasticceria Fratelli Stratta, con gli arredi originali del 1836.

Palazzo Carignano

Una delle più originali costruzioni del Barocco, fu realizzato nel 1679-84 da Guarino Guarini su incarico del principe Emanuele Filiberto il Muto, figlio di Tommaso di Carignano. La facciata in cotto è ad andamento curvilineo, con il corpo centrale ellittico aggettante anche verso il cortile interno. Dal vestibolo due scaloni in curva portano al piano nobile, dove era il salone delle feste trasformato nel 1848 in aula del Parlamento subalpino. Il palazzo venne raddoppiato dal lato interno con la creazione dell'ala ottocentesca di Giuseppe Bollati su disegno di Gaetano Ferri (1864?71), con greve facciata verso la retrostante piazza Carlo Alberto. Questa, con monumento equestre a Carlo Alberto (Carlo Marocchetti, 1861), è delimitata sul lato opposto dalla facciata neoclassica delle ex scuderie del principe di Carignano, conglobata nel moderno edificio della Biblioteca Nazionale (1959-73). Palazzo Carignano, dove nacquero Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, fu sede del primo Parlamento subalpino e poi del primo Parlamento italiano, fino al trasferimento della capitale a Firenze (1865). Ospita il Museo nazionale del Risorgimento italiano, la Deputazione subalpina di Storia patria e la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte. Quest'ultima ha in programma l'apertura di un percorso museale attraverso le sale del piano terra che conservano la decorazione sei-settecentesca, cui attesero vari stuccatori e pittori, tra i quali Stefano Maria e Tommaso Legnani.

Gran Madre di Dio

Una scalinata affiancata dalle statue della Religione a destra e della Fede a sinistra (Carlo Chelli) porta al tempio neoclassico con pronao esastilo, eretto da Ferdinando Bonsignore nel 1821-31 per celebrare il ritorno del re Vittorio Emanuele I (20 maggio 1814). Nell'interno a pianta circolare sono collocate, partendo da destra, le statue di S. Maurizio, della beata Margherita di Savoia, del beato Amedeo di Savoia, di S. Giovanni Battista; all'altare maggiore Vergine col Bambino di Andrea Galassi, su quello a destra Crocifisso e su quello a sinistra Sacro Cuore di Gesù, entrambi di Edoardo Rubino. A sinistra della scalinata si scende nell'ossario dei caduti della guerra 1915-18.

I Musei di Torinoo

Museo Egizio

La storia del Museo Egizio di Torino inizia già nel XVII secolo con l'acquisto dei primi pezzi, oggetti di poco conto accanto ad altri invece di grande pregio (come la Mensa Isiaca, lastra in bronzo ageminata d'argento), cui si aggiunse in seguito un lotto della collezione Gonzaga. Nel 1722 l'Università di Torino riceveva da Vittorio Amedeo II le raccolte così formatesi, destinandole a nucleo iniziale di un Museo di Antichità. Essenziali ai fini delle future collezioni furono però le ricerche e i ritrovamenti di due personaggi quali Vitaliano Donati, professore di botanica all'Ateneo torinese, inviato in Egitto da Carlo Emanuele III nel 1753, e soprattutto Bernardino Drovetti, singolare figura di diplomatico (fu console generale di Francia in Egitto) ed archeologo appassionato. Durante i suoi viaggi mise insieme, in un'autentica caccia al tesoro svoltasi in Nubia, a Karnak e nella zona tebana, una preziosa collezione, acquistata alla sua morte da Carlo Felice (1824) per la somma, allora enorme, di 400.000 lire. Entrarono a far parte del Museo, ospitato nel maestoso Palazzo dell'Accademia delle Scienze, veri e propri capolavori tra cui la celebre statua in granito di Ramsete II, quella della dea Sekhmet, le sfingi in pietra dedicate ad Amenofi III, oltre a papiri (Libro dei Morti, lungo 19 m), sarcofaghi e mummie. Nel corso del XX secolo il Museo si è arricchito, grazie agli scavi di Ernesto Schiaparelli e Giulio Farina, di altre opere funerarie di notevole valore (tomba di Kha e Mirit, della XVIII dinastia), ampliandosi con ulteriori sezioni, l'ultima delle quali è il Tempio di Ellesija, donato dallo Stato egiziano.

Galleria Sabauda

Nel 1832 Carlo Alberto decise di esporre al pubblico 364 dipinti provenienti da Palazzo Reale e da altre residenze. La Reale Galleria fu donata allo Stato nel 1860 e trasferita nel 1865 nell'attuale sede. Il nucleo originario si accrebbe per donazioni, soprattutto di opere di maestri piemontesi, e per acquisti mirati a colmare le lacune nel settore degli italiani. Ai lavori di riordinamento delle sale compiuti alla fine dell'800 seguirono quelli più radicali di ristrutturazione del 1952-59. Il riallestimento in corso dell'intera Galleria ha riguardato per ora la sezione dei dipinti fiamminghi e olandesi e le collezioni dinastiche da Emanuele Filiberto a Carlo Felice. La visita inizia con il settore dei dipinti italiani. Nelle prime sale sono opere di scuola toscana: Beato Angelico, Madonna col Bambino; Antonio e Piero del Pollaiolo, L'arcangelo Raffaele e Tobiolo; Lorenzo di Credi, Madonna col Bambino; Franciabigio, Annunciazione; Filippino Lippi, I tre arcangeli e Tobiolo. Seguono le sale dedicate al Manierismo (Bronzino, Ritratto di gentildonna; Daniele da Volterra, S. Giovanni Battista decollato), alla scuola lombarda (Bergognone, Predicazione di S. Ambrogio, Consacrazione di S. Agostino) e alla scuola veneta (Giovanni Bellini, Madonna col Bambino; Schiavone, Madonna col Bambino; Giovanni Gerolamo Savoldo, Adorazione dei pastori). Nella sezione della scuola fiamminga figurano due capolavori: Jan van Eyck, Stimmate di S. Francesco, e Hans Memling, Passione di Cristo. Segue il settore dedicato alle collezioni del principe Eugenio di Savoia-Soissons e di pittura fiamminga e olandese, tra le più importanti esistenti in Italia. La quadreria del principe Eugenio, già al Belvedere di Vienna, venne acquistata da Carlo Emanuele III nel 1741. Tra i quadri di scuola italiana sono S. Giovanni Battista e Lucrezia di Guido Reni. Per i pittori fiamminghi e olandesi si segnalano: Paulus Potter, I quattro tori; Gerard Dou, Giovane olandese alla finestra, 1662; Frans van Mieris il Vecchio, Il suonatore di ghironda e Autoritratto, 1659; Anthonie Sallaert, Processione delle fanciulle del Sablon a Bruxelles, e ancora scene di David Teniers il Giovane, diverse opere di Jan Bruegel dei Velluti, paesaggi di Jan Griffier, nature morte di Jan Davidsz de Heem, Cornelis de Heem e Abraham Mignom Tra le acquisizioni di Carlo Emanuele III: Pieter Saenredam, Interno di S. Odulfo ad Assendelft; Salomon Koninck, Ritratto di un rabbino: tra quelle della Regia Pinacoteca il Ritratto di vecchio di Rembrandt van Rijn. Nella galleria le dieci Battaglie di Jan Huchtenburg rappresentano le imprese militari del principe Eugenio, effigiato nel ritratto equestre di Jacob van Schuppen. La sezione della pittura piemontese comprende una Madonna col Bambino di Barnaba da Modena, un prezioso trittico di Jacques Iverny e, per i piemontesi operanti tra XV e XVI secolo, opere di Giovanni Martino Spanzotti (Madonna col Bambino e santi), Defendente Ferrari, Giuseppe Giovenone il Vecchio, Gerolamo Giovenone, Macrino d'Alba, Pietro Grammorseo (Battesimo di Cristo, 1523). Tra i pittori piemontesi del '500: il caposcuola Gaudenzio Ferrari (Crocifissione) e Bernardino Lanino (Madonna col Bambino e santi, 1534).

Museo nazionale del Risorgimento italiano

Istituito nel 1878, fu trasferito nell'attuale sede nel 1935. In 27 sale del piano nobile del palazzo, illustra il processo di unificazione dalla battaglia di Torino del 1706 alla seconda guerra mondiale attraverso dipinti, statue, libri, documenti, stampe, fotografie, cimeli, armi, bandiere, divise. Nella settima sala sono esposti cimeli di Silvio Pellico, di cui è ricostruita la cella allo Spielberg con la porta autentica; nella tredicesima sala è allestita, con l'arredo originario, la stanza in cui Carlo Alberto morì a Oporto. Nell'ellittica aula del Parlamento subalpino, che ospitò la Camera dei Deputati del regno di Sardegna dal 1848 al 1860, coccarde tricolori contrassegnano i seggi di Garibaldi, Gioberti, D'Azeglio, Balbo e Cavour. Nella 20-21esima sala sono da ammirare le 108 tempere di Carlo Bossoli con scene della seconda guerra d'indipendenza. Nell'aula del Parlamento italiano (ventiseiesima sala), terminata nel 1871 dopo il trasferimento della capitale e perciò mai utilizzata, sono esposte 172 bandiere relative al movimento operaio. La visita si conclude con la Galleria della Resistenza (ventisettesima sala), dove sono conservati documenti inerenti l'antifascismo.

Museo nazionale dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia"

Il museo è allestito nell'edificio costruito appositamente da Amedeo Albertini nel 1960 e che ripercorre la storia dell'autolocomozione dalle origini ai giorni nostri. Al piano terreno si può seguire l'evoluzione del pneumatico, al primo piano sono esposte le vetture ordinate cronologicamente e le carrozzerie e al secondo piano è stata allestita la sezione sportiva. I primordi dell'automobilismo sono illustrati da modelli di macchine con propulsione a vento e a vapore e da vetture di produzione italiana. Da segnalare la vettura a vapore Bordino, costruita a Torino nel 1854, il triciclo a vapore di Enrico Pecori (1891), la vettura Bernardi (1896), la vettura Fiat 1901 e la mitica Itala 1907, che vinse la gara Pechino-Parigi (1907, 16 000 km in 44 giorni); e ancora l'autotelaio Lancia "Lambda" (1923), il coupé de ville Isotta Fraschini 8A (1929) e la Cisitalia 202 (1948). Per la produzione estera, ben documentata, degne di nota la Ford T (1916) e la Rolls-Royce "Silver Ghost" (1914).

LA TRAGEDIA DI SUPERGA

Il 4 maggio 1949, di ritorno da una partita vittoriosa a Lisbona, l'aereo che riportava i calciatori del Torino in patria, causa forse principale le avverse condizioni atmosferiche, si schiantò contro la base del muraglione posteriore del complesso della Basilica. Morirono nella sciagura 31 persone: tutta la grande squadra granata (titolari e riserve) i sei accompagnatori e l'equipaggio.

LA FIAT

Sigla di Fabbrica Italiana Automobili Torino, società fondata nel 1899 da alcuni industriali, tra cui G. Agnelli. Avviata la fabbricazione in serie di autoveicoli, sviluppò notevolmente la sua capacità produttiva nel corso della prima guerra mondiale. Successivamente estese la produzione ai settori ferroviario, aeronautico e navale, alle macchine per l'edilizia e per l'agricoltura e anche ai settori elettronico e nucleare. In numerosi Paesi sono costruite o montate auto su licenza FIAT. è stata una delle prime aziende italiane a stipulare accordi con l'Unione Sovietica, che portarono alla costruzione dello stabilimento di Togliattigrad, e con la Polonia per la produzione della 126. Nel 1967 la FIAT ha incorporato l'Autobianchi e la OM; nel 1969 ha acquistato il capitale sociale della Lancia S.p.A. e una partecipazione del 50% nel capitale della Ferrari diventata maggioritaria nel 1988; nel 1971 ha acquistato l'Abarth. Nel 1986 ha acquistato dall'IRI, dopo un'aspra battaglia con la Ford, l'Alfa Romeo, confluita poi nella nuova società Alfa-Lancia. Dalla collaborazione FIAT-IRI è nata anche la Società Grandi Motori Trieste che ha visto concentrate le produzioni di grandi motori Diesel. Dal 1978 la FIAT è stata trasformata in una holding. Le società controllate e collegate, oltre un migliaio, operanti in circa 60 Paesi, sono organizzate in 15 settori di attività tra cui spicca quello degli autoveicoli, il cui costante sviluppo è stato scandito dalla progressiva incorporazione di altre società automobilistiche. Essa è stata presente, fino al 2003, nel settore aeronautico con la FIAT Avio. Attraverso l'Impresit (costituita nel 1929) FIAT ha partecipato alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali sia all'estero (dighe di Kariba nello Zimbabwe, di Akosombo nel Ghana, del Mantaro in Perù), sia in Italia, dove ha esteso il proprio impegno nel campo della salvaguardia ambientale e dei beni culturali. Ha preso parte al salvataggio dei templi di Abu Simbel e alla costruzione del ponte sul Paraná in Argentina. Nel 1989 dalla fusione di Impresit e Cogefar S.p.A. è nata la Cogefarimpresit. FIAT è inoltre presente nel campo assicurativo, mobiliare, alimentare e dei servizi finanziari. Possiede, infatti, partecipazioni rilevanti nella Galbani e nella Star, controlla la Rinascente e, attraverso Gemina, il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Nel corso del 1994, sono stati messi a regime i nuovi stabilimenti di Melfi (Potenza) e di Pratola Serra (Avellino). Gli sforzi del gruppo in questi anni sono prevalentemente legati alla ricerca di una efficienza sui costi sia di prodotto sia di struttura e a una maggiore apertura ai mercati dell'America Latina. Nel 1995 è stata conclusa una joint venture con la statunitense Chrysler per la produzione di jeep. Nel 1997 la FIAT ferroviaria e la francese Lohr hanno firmato un accordo per lo sviluppo delle loro attività nel settore dei trasporti urbani. Nello stesso anno il 50% della Maserati, società già detenuta interamente dalla FIAT Auto, è stato trasferito alla Ferrari, anch'essa appartenente al gruppo FIAT Auto. Nel 1998 Iveco e Renault hanno costituito un gruppo per la produzione di autobus. Nel 1999 la FIAT S.p.A. ha tentato accordi con diverse società asiatiche e ha concluso una joint venture con la Mitsubishi, per la produzione di un nuovo fuoristrada da città. Nel 2000 è stato concluso un accordo di collaborazione con la General Motors per il settore auto, poi revocato nel 2005. Nel 2001, con la francese Electricité de France (EdF), ha lanciato con successo un'Offerta Pubblica di Acquisto (OPA) nei confronti del gruppo Montedison. Nel 2002 l'azienda si è trovata ad affrontare una grossa crisi produttiva, legata all'andamento del settore auto. Nel 2005 ha acquisito nuovamente la Maserati.

SACRA SINDONE

La Sacra Sindone è il lenzuolo che, secondo la tradizione, avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la crocifissione. Non si hanno notizie certe della sua presenza nel periodo precedente al Medioevo. Venne portato a Torino, dopo numerose peregrinazioni, dai cavalieri Templari quando venne perso il controllo della Terrasanta (uno dei primi documenti che ne fa menzione risale al 1389). Attualmente il "sacro lino" si trova nel Duomo di Torino, luogo nel quale venne portato dal 1578, dopo esser scampato all'incendio di Chambery e minuziosamente riparato dalle monache nei punti danneggiati. Ora viene custodito all'interno di una teca climatizzata e protetta. Periodicamente vengono organizzate le "ostensioni", durante le quali, per un periodo, la tela vene distesa ed esposta al pubblico all'interno del Duomo. Alcuni anni fa un incendio minacciò il telo, ma il contenitore venne prontamente portato in salvo dai Vigili del Fuoco e non subì danni. Innumerevoli equipes di studiosi e scienziati da tutto il mondo hanno effettuato ogni genere di saggi, ed una recente datazione al carbonio 14 ha fatto risalire il tessuto al XIV secolo; la Sindone pertanto non sarebbe originale, anche se rimane un simbolo importante per la fede cristiana.

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